Con
la rappresentazione della tragedia di Eschilo “I Persiani”, per la
regia
di Antonio Calenda, si è conclusa la stagione delle
manifestazioni
classiche del teatro greco di Siracusa.
Con
la messa in scena anche delle “Eumenidi”, sempre di Eschilo, anche
quest’anno
l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) ha offerto
rappresentazioni
di alto livello qualitativo che, riproponendo il repertorio tragico
greco
nel contesto che più gli è congeniale, ha saputo
riaffermare
ancora una volta la validità e l’attualità perenne del
patrimonio
classico e le potenzialità della Sicilia come terra capace di
conservare,
trasmettere e valorizzare questo antichissimo patrimonio culturale.
La
scelta de “I Persiani” è stata determinata senza dubbio
dall’attualità
del tema della guerra che Eschilo affronta nella tragedia, la cui presa
presso il grande pubblico che ha affollato quasi tutti i giorni il
teatro
greco è stata accresciuta anche dalla validità della
messa
in scena nella quale Calenda ha saputo far convivere l’austerità
drammatica tipicamente eschilea con soluzioni registiche capaci di
permettere
una fruizione più leggera dell’opera (musiche di Germano
Mazzocchetti
drammatiche ma non eccessivamente lugubri, alternanza coro – singoli
attori,
sapiente simbolismo scenografico di Bruno Buonincontri) e dal cast di
prim’ordine
che ha trovato inimitabili interpreti in Piera Degli Espositi (Regina
Atossa),
seppur infortunata, in Roberto Herlitzka (uno straordinario
Messaggero),
Osvaldo Ruggieri (ombra di Dario), Luca Lazzareschi (Serse), oltre che
negli Anziani e nel Coro.
“I
Persiani” (472), la tragedia più antica pervenutaci
intera,
è piuttosto “anomala” in quanto affronta come argomento un
evento
storico – la sconfitta dei Persiani a Salamina da parte della
coalizione
greca, avvenuta otto anni prima - e non, come di consueto,
mitico. Tuttavia, non in questo consistette l’audace originalità
di Eschilo, poiché già qualche anno prima Frinico aveva
riportato
la palma mettendo in scena, con la Presa di Mileto, un argomento
analogo.
Del resto, in una cultura ancora ampiamente orale come quella ateniese
del V sec. a.C., anche gli eventi storici avevano bisogno di diventare
leggenda per essere tramandati e diventare patrimonio popolare, e la
sorprendente
vittoria della democrazia ateniese sul colosso persiano poteva
rientrare
nel patrimonio politico-religioso del popolo greco solo attraverso una
forma di autocoscienza collettiva, com’era appunto quella del teatro.
Non
a caso, il dramma venne finanziato dall’astro sorgente della politica
ateniese,
quel Pericle che, seppur giovanissimo, aveva già un chiaro
progetto per la supremazia su tutte le città greche e
l’unità
intorno ad Atene.
L’originalità
consisteva piuttosto nella scelta del punto di vista che il
tragediografo
adotta per raccontare la storia: non quello del vincitore, bensì
quello del vinto, del nemico, del “barbaro” la cui memoria
potrà,
sola, testimoniare il valore del vincitore. Allo stesso modo,
nell’epitaffio
di Eschilo, probabilmente composto da lui stesso leggiamo: “Eschilo,
figlio
di Euforione, ateniese, morto a Gela produttrice di grano, questo
monumento
ricopre: il bosco di Maratona potrebbe raccontare il suo glorioso
valore
e il Medo dalle lunghe chiome che lo conosce”. Poiché solo
immaginandoci
attraverso gli occhi degli altri, rappresentandoli in modo credibile,
distanziandoci
da noi stessi, sarà riconosciuta la validità politica ed
etica dell’azione del vincitore, saranno i Persiani stessi a
riconoscere
che la ragione della vittoria risiede nel fatto che i Greci “si
governano
da sé e si battono per la propria libertà” e dunque
devono
combattere fino allo stremo per liberare “la patria, i bambini, le
donne,
le dimore degli dei padri e le tombe degli antenati”. Impossibile
perdere
quando la posta in gioco è così alta!
Al
contrario, l’impresa di Serse, come lo spettro del padre Dario evocato
dalla tomba per avere lumi sul futuro predirà tristemente,
è
stata frutto di hybris,e “la tracotanza, fiorendo, frutta una spiga di
illusione (ate) da cui mieterà un raccolto di lacrime”. La
sconfitta
è, dunque, il castigo di Zeus alle presunzioni arroganti, alla
smodata
insolenza del giovane, troppo giovane, Serse.
La
chiave di lettura più immediata della tragedia potrebbe apparire
a prima vista quella che vede nel conflitto tra Grecia e Oriente il
contrasto
insanabile tra ragione - misura e arroganza - dismisura, tra democrazia
e assolutismo, tra un popolo libero e una massa di schiavi. Ma, a ben
vedere,
nelle parole di Dario non c’è solo il rimprovero alla
presunzione
persiana, ma anche un avvertimento e un insegnamento al vincitore
greco,
cui addita la fragilità di ogni impero, il destino di finitezza,
dolore, e morte di tutti gli esseri umani, dei vinti come dei
vincitori.
Ed è qui il senso più profondo, della tragedia, nella
constatazione
che ogni imperialismo è destinato a incontrare i suoi limiti
nella
volontà di autonomia degli altri, ma soprattutto che la
finitezza
è comune a tutti gli esseri umani e che il destino
assegnato
dagli Dei agli uomini è di imparare solo attraverso il dolore e
la sofferenza (“sapere è patire”).
Così
una profonda pietà è quella che nutre Eschilo nei
confronti
del nemico, di Serse, sopravvissuto ai suoi migliori uomini, il quale
maledice
la sorte che non ha voluto farlo morire insieme a loro espiando il suo
peccato di hybris, e dei principi persiani che non sono morti senza
nome,
ma i cui nomi, anzi, in segno di grande rispetto verso il coraggio e
l’eroismo
di un nemico vinto – si badi - con l’inganno, sono citati uno per uno,
nel racconto del messaggero che è un rosario atroce di caduti:
venti
versi che costituiscono un capolavoro che non ha pari nella letteratura
mondiale.
Così
l’esodo, che vede in scena Serse e il Coro, si conclude con delle
parole
che sono piuttosto un rimando di gemiti, lamenti strazianti, urla di
dolore,
balbettii dall’ultima disfatta totale, perché non c’è
futuro
per quello che è stato un impero grandissimo e ricchissimo, che
non potrà più risollevarsi, avendo perso i suoi figli
migliori,
svuotato le case di figli, isterilito il grembo delle madri. E
sull’infelice
terra di Persia, divenuta luogo di lutto, deserto di morti,
calerà
presto e per sempre il sipario della storia.
Ma
riecheggiano ancora dall’aldilà le parole di Dario e suonano
come
tragico ammonimento per vincitori e vinti: “Nessuno disprezzi la
propria
condizione per desiderare un’altra sorte, finendo col dissipare la
prosperità
che già possiede”, messaggio di pace ieri come oggi per le
potenze
e le superpotenze che, non contente del proprio benessere
ottenuto
spesso a danno di altri popoli, ritengono di doverlo accrescere
smisuratamente
ricorrendo, oggi come ieri, ancora e sempre alla guerra. La realistica
metafora eschilea della mattanza dei nemici come fossero tonni in una
grande
tonnara risonante di colpi, spumeggiante di sangue, balenante di corpi
guizzanti mentre toglie alla guerra ogni sublime epos eroico, la
restituisce
a tutta la crudezza della sua realtà.