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Il geologo del Mito
di Federico Moro

Scheda biobibliografica

Se la pietra conserva le tracce dell’uomo… se nelle sue venature si legge oltre allastoria naturale quella spirituale… specie quando si esaminino invece di sassi opere d’artefice… allora per carpirne i segreti servono uno scienziato e un esploratore dell’anima: un geologo, per esempio, e un artista.

Forse non è casuale che Nin Scolari, protagonista dell’avanguardia teatrale europea, vanti entrambe le radici nel proprio patrimonio genetico. E con ogni probabilità il geologo ha esercitato una qualche influenza sulle scelte del drammaturgo affascinato dal mistero delle aree archeologiche. Ovvero degli ultimi angoli in cui, per usare una sua espressione, «I Miti si sono rifugiati nell’attesa di tempi e uomini diversi».

Angelo “Nin” Scolari nasce scienziato, geologo appunto, e non di poco conto: presso la prestigiosa Università di Padova.

Nin, com’è avvenuto il tuo incontro con il teatro?

Il teatro è la mia vita… rappresenta il senso profondodel mio essere, fin da bambino, potrei dire. Certo è stato dopo lunga riflessione che sono giunto alla conclusione di aver trovato nella drammaturgia la forma espressiva per me più efficace. E così, in modo del tuttonaturale, è venuta la scelta.

Di abbandonare l’università e la geologia per ilpalcoscenico.

In un certo senso è andata così anche se le parole ingannano.

Perché?

Detto in questi termini assomiglia a un banale cambio di mestiere, di lavoro.

E invece?

Il teatro verso cui mi sono incamminato è stato quello di ricerca, l’unico che mi permettesse d’individuare e portare alla luce nuovi moduli della comunicazione. Quindi non una forma d’arte caratterizzata dalla messa in scena organizzata…

Scusa, Nin, cosa intendi per “teatro di ricerca”?

La drammaturgia che punta a innovare i linguaggi dell’espressione artistica. Nel teatro del Novecento, inteso quale spettacolo proposto da una compagnia a un pubblico pagante all’interno di una struttura prestabilita,la drammaturgia è finita risucchiata dalle esigenze del palcoscenico. Il “professionismo” teatrale l’ha uccisa. Quando lo spettatore ne ha preso atto il cortocircuito è stato inevitabile, i teatri si sono svuotati: non erano più “i luoghi della drammaturgia” e i fruitori li hanno disertati.

È tutto qui il Novecento?

No. Da Stanislavskij ad Appia, da Craig a Copeau, Piscator, Brecht e Artaud già nella prima metà del Secolo assistiamo a un enorme sforzo creativo per ridefinire tutte le funzioni del teatro: attore, drammaturgia, spazio, pedagogia, gruppi di lavoro, spettatore. Ognuno darà le proprie risposte, ma queste restano ancora oggi le domande fondamentali.

E poi, nella seconda metà del Novecento, intendo?

C’è una specie di cambio della guardia, compaiono i protagonisti di quello che sarà chiamato “Nuovo Teatro” perché intendeva la drammaturgia come ricerca di un radicale cambiamento del modo di fare e concepire il teatro… per far emergere alternative alle convenzioni cristallizzate della scena ufficiale, non solo sul piano delle forme, ma anche dei modi di produzione.

Qualche nome?

Julian Beck e il Living Theatre, Kantor e il Cricot-2, Grotowski, Krapow, l’Odin Teatret… e gli italiani, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Quartucci, Ronconi…

Scusa, Nin, mi sembramanchino del tutto i teatri stabili e i grandi uomini di spettacolo.

È vero e per una semplice ragione: il loro lavoro non ha prodotto nessun rinnovamento. Potremmo collettivamente definirli “Teatro della Conservazione” perché rappresentano la sterile prosecuzione dei modelli ottocenteschi, uso strumentale della drammaturgia, regia intesa quale pura pratica di composizione, l’attore visto come portatore di un messaggio a lui estraneo da proporre a un pubblico da illudere.

Il “Teatro di Ricerca” invece?

Partiamo da sette definizioni base:

1- regia: montaggio delle azioni e della proposta dei processi creativi,

2- drammaturgia: svolgimento simultaneo e coordinato delle funzioni del teatro,

3- spazio: contenitore idoneo alla messa in scena di situazioni non illusorie,

4- attore: colui che agisce e proietta la propria visione del mondo,

5- gruppo: insieme in grado di elaborare una propria cultura,

6- pedagogia: laboratorio dove nascono sia l’elementare, che il complesso,

7- spettatore: parte attiva dell’evento teatrale.

Già così s’intuisce quanto cambi la cosiddetta “messa in scena”.

«Per salvare il teatro bisogna distruggere il teatro» sono parole di Eleonora Duse.

Sì e aggiungeva «Gli attori e le attrici devono morire tutti di peste». In definitiva, il teatro di ricerca si allontana dalle categorie dell’intrattenimento per diventare un fermento vivo immerso nella realtà del proprio tempo. Un produttore di suggestioni e di visioni del mondo in continua evoluzione.

Allora “distrutti i teatri” ti sei spostato nelle aree archeologiche, “I Luoghi del Mito”.

Certo. Perché se il teatro, luogo fisico, cessa di essere il modello unico riconosciuto dove si svolge la rappresentazione, lo spazio teatrale ridiventa un’invenzione.

Per quale ragione scomodare il Mito?

Noi viviamo in un mondo dominato dalla scienza, che crede di poter “matematizzare” l’Universo e rifiuta il Mito convinto si tratti soltanto di unmodo per travestire la Storia. Il Mito, però, sopprime Tempo e Storia progressivi, vive in un eterno presente, sostituendo la linea con il cerchio congiunge gli estremi. Non spiega, s’impone, e convince rendendo accettabile ciò che è necessario, possibile l’impossibile, fondando e creando la realtà. E della luce del Mito l’Uomo ha bisogno.

Come mai le aree archeologiche?

Dopo anni di lavoro nei siti della Magna Grecia, mi sono convinto che i Miti, scacciati dalla nostra vita quotidiana, si siano in un certo senso rifugiati nella suggestione di questi luoghi magici. In attesa di tempi e uomini diversi.

La tua ricerca è partita dai Miti classici con spettacoli quali Sulle Orme di Hera, La Biblioteca del Tempo, Tragoedia per terminare con un approdo inatteso.

Ti riferisci a Reitia, Dea della nostra memoria…

Sì e di conseguenza agli Antichi Veneti, che hai, per così dire, evocato.

L’incontro con Reitia, la Grande Dea Madre degli Antichi Veneti, è stato casuale. Pensando al Mito è stato inevitabile cominciare da quelli greci. Nel corso delle mie ricerche, però, mi sono imbattuto in Reitia e in questo popolo trascurato che rappresenta poi l’origine ancestrale di chi ancora oggi vive nella regione.

Perché “resuscitare” Reitia?

Mettere in scena gli Antichi Veneti ha significato rendere visibile la nostra storia, le radici culturali più profonde di un popolo al crocevia di diverse civiltà: Illiri, Etruschi, Celti, Greci… per dirla con Paul Klee: «L’arte non riproduce ciò che è visibile. Rende visibile». Ecco, questo èil senso di Reitia, dea della nostra memoria, rendere visibile un passato rimasto in ombra.

Una memoria tutta al femminile quella che emerge dallo spettacolo.

In effetti, oltre a Reitia spicca la figura di Nerka Trostiaia, un personaggio storico il cui corredo funebre ritrovato intatto costituisce uno dei tesori del Museo Nazionale Atestino. Del resto è l’evidenza archeologica a dircelo: nella società anticoveneta la figura della donna era centrale. Ma si tratta di un aspetto. In futuro ne scandaglieremo altri e per farlo andremo in cerca degli spazi che meglio potranno valorizzare il senso della nostra ricerca: nuovi e magari inusuali “Luoghi del Mito”.

E con quest’ultima suggestione lasciamo Nin Scolari. Torneremo a parlare del suo lavoro prossimamente, approfondendo alcuni aspetti rimasti in ombra. Perché Nin Scolari significa Teatrocontinuo e Scuola Ulysses, teatro di strada e interventi drammaturgici nei contesti più imprevedibili: una sfida intellettuale sempre difficile e ricca di fascino.


14 settembre 2003


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