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Nel segno del non-senso
di Gianmario Lucini

Scheda biobibliografica

«Alcìnoo Rege, che ai mortali tutti
Di grandezza e di gloria innanzi vai,
Bello è l'udir - gli replicava Ulisse -
Cantor come Demòdoco di cui
Pari a quella d'un dio suona la voce:
Né spettacol più grato havvi che quando
Tutta una gente si dissolve in gioia;
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci
Colme di cibo son, di vino l'urne,
Donde coppier nell'auree tazze il versi,
E ai convitati assisi il porga in giro»

Omero, Odissea, IX, 1-12


Tale era il rito della poesia ai tempi di Omero, nella traduzione che Ippolito Pindemonte fa delle parole di Ulisse. Immaginiamo questa grande sala della reggia di Alcinoo a sera, rischiarata dalle fiaccole, con i convitati intenti alla cena in onore dell’ospite, i servi affacendati, i cani che gironzolano, la brezza del mare che rinfresca. D’un tratto, a un cenno del re, il rapsodo tocca leggermente la cetra e tutti zittiscono. Sanno che a quel lieve preludio di note seguirà un evento unico e irripetibile, non solo perché Demòdoco è “cantor ... di cui / pari a quella d’un dio suona la voce”, ma perché sanno che le parole che usciranno dalla bocca del cantore in qualche modo li riguardano. Certo riguardano Ulisse, che infatti piange dalla gran commozione, ma anche gli altri Feaci possono ascoltare nelle parole del rapsodo un diretto riferimento alla loro storia, alle loro usanze, alla loro visione del mondo. In qualche modo la guerra di Troia è solo un pretesto per catturare dentro una sfera magica la loro attenzione e lasciare che liberamente la loro più intima umanità interroghi quegli archetipi e quei simboli che si materializzano in immagini mentre Demòdoco canta. In assenza di realtà virtuale e di effetti speciali, che in fin dei conti non sono altro che creature materializzate dell’immaginario, è l’immaginario stesso che si mette in moto.

E mentre il poeta canta il silenzio regna nella stanza. Tutti ascoltano questo straordinario concentrato di prosodia, di senso, di normatività, di etica, di estetica, di teologia, di sapere collettivo e universale che è la poesia epica.

La poesia infatti, ai tempi di Omero, vive nella felice condizione di non essere più appannaggio esclusivo della classe sacerdotale, ma un’arte che narra sempre più i fatti degli uomini, del loro rapporto con gli dèi, la natura, la legge, il destino. Un’arte che è parte della vita sociale.

Il poeta dunque, col suo canto, crea un mondo unico nel quale tutti i diversi mondi individuali trovano accoglienza, che permette una identificazione dell’Io individuale con l’Io collettivo. Dunque, la poesia epica è ancora essenzialmente poesia religiosa, ma è qualcosa di più della poesia religiosa dei sacerdoti egiziani e babilonesi, perché è insieme storia, legge, usanza, senso di appartenenza (ad un’unica koinè), contenitore del sapere collettivo di un popolo insomma, come in un certo senso fu la Bibbia per gli Ebrei. Da lì nascerà tutto: la filosofia, la poesia lirica, la musica, il canone estetico. Non esiste oggi qualcosa di paragonabile a quella poesia né lo è la poesia epica che seguirà ai poemi omerici, compresa la stessa Eneide che pure si proponeva esplicitamente come obiettivo ciò che Omero fece non certo come calcolo o costrutto (anche se non è difficile intravvedere un’intenzione pedagogica, per così dire, nei poemi omerici).

Dallo smembramento della poesia epica nasceranno altre forme: la somma tragedia di Eschilo, i poemi filosofici dei presocratici (i molti Perì physeos, il grande poema di Parmenide, gli aforismi asciutti e ieratici di Eraclito, il fantastico e mistico poema di Empedocle) e le opere di molti altri, di cui a volte non abbiamo che il titolo – mentre i poemi omerici, come una Bibbia, come un libro divino, si sono tramandati di generazione in generazione, sempre ammirati e mai eguagliati. C’è qualcosa che assomiglia al sentimento della nostalgia in questa vicenda.

Poi venne anche la lirica, una poesia più moderna, più individuale, più adatta alla lettura che alla recita, e anche la recita assume un altro significato: cessa in qualche modo di essere un fatto rituale o lo è sempre di meno, per diventare uno spettacolo, un agone. La poesia polimorfica ma unitaria che vede in Omero l’esempio sommo, si sfilaccia in mode e “contaminazioni” (così si direbbe oggi) a volte molto diverse, tanto che sarebbe difficile farle risalire a una sola origine. Soltanto Dante, con la sua “Comedia”, riuscirà ad eguagliare la vicenda dell’Odissea.

 

Ma che cosa inchiodava i Feaci al silenzio, gli occhi incollati alla cetra di Demòdoco, la commozione in petto, in quel religioso rispetto? Certo, il rito, l’arithmós, il senso della misura e dell’equilibrio, dell’armonia che veniva da quei versi, da quella musica, da quel quid rappresentato dalla situazione in sé, fuori dal tempo e dallo spazio.

Però anche un altro elemento, che mancherà nella poesia che sarà scritta per essere individualmente letta, li tiene come incatenati a quella rappresentazione. E’ l’elemento del corpo, la presenza fisica, il tono della voce, il canto, la loro presenza all’evento che diventa essa stessa parte del poema recitato e che nel testo letto individualmente non può essere resa.

Da allora in poi la poesia non ha più ritrovato il corpo. E’ vero, si tengono a volta le recite, ma quali recite... Non c’è paragone fra la scena di Demòdoco che canta nella reggia dei Feaci e la moderna recita, dove il poeta sta dietro a un tavolo leggermente sopraelevato rispetto all’uditorio che è collocato a lui frontalmente; la voce viene alterata dal microfono, che spesso l’abbuia, fra fischi e crepitii dei ritorni d’eco; il suo viso è sfigurato dalle luci da macelleria (altro che l’umano e poetico lume delle lampade ad olio o delle fiaccole...). I “convitati” non mangiano nulla, e già l’assenza del “con-vito” è un elemento decisivo di de-socializzazione. Se levi gli occhi vedi quattro o cinque signori, di là dal tavolo e il poeta fra questi, e poi vedi nuche, capelli di ogni tinta, pelate più o meno esibite. Che cosa c’è di poetico in tutto questo? Per la poesia satirica ci sarebbe molto: la noia mortale che viene per dovere sociale dissimulata e che serpeggia come un “non detto” nell’aria, un tabù che nessuno osa infrangere. A volte qualche verso afferrato, qualche guizzo di senso, sembrano illuminare lo sguardo dell’ascoltatore, strappandogli un moto di consenso, ma tutto finisce lì e, dal momento che ci si dorme sopra, alle sette del mattino del giorno dopo nessuno più si ricorderà della recita.

Questo è il destino della poesia recitata. Questo il maltrattamento rivolto al nostro corpo, al corpo del poeta, alla sua voce, al suo impegno, alla sua – nonostante tutto – fede nella poesia, che viene così duramente messa alla prova. Nel segno del non-senso.

Eppure noi sappiamo, sul corpo, molto più di quanto gli antichi sapevano, questi aspetti sono stati studiati e resi noti da molto tempo e nonostante tutto si continua, imperterriti, a celebrare i riti del non-senso, nel tempo del banale e dell’effimero, quando ci sarebbe fame di senso, una nostalgia da morirne.


20 giugno 2003 


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