«Alcìnoo
Rege, che ai mortali tutti
Di grandezza
e di gloria innanzi vai,
Bello è
l'udir - gli replicava Ulisse -
Cantor
come Demòdoco di cui
Pari a
quella d'un dio suona la voce:
Né
spettacol più grato havvi che quando
Tutta una
gente si dissolve in gioia;
Quando
alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono
in ordine, e le lanci
Colme di
cibo son, di vino l'urne,
Donde coppier
nell'auree tazze il versi,
E ai convitati
assisi il porga in giro»
Omero, Odissea,
IX, 1-12
Tale
era il rito della poesia ai tempi di Omero, nella traduzione
che
Ippolito Pindemonte fa delle parole di Ulisse. Immaginiamo questa
grande
sala della reggia di Alcinoo a sera, rischiarata dalle fiaccole, con i
convitati intenti alla cena in onore dell’ospite, i servi affacendati,
i cani che gironzolano, la brezza del mare che rinfresca. D’un tratto,
a un cenno del re, il rapsodo tocca leggermente la cetra e tutti
zittiscono.
Sanno che a quel lieve preludio di note seguirà un evento unico
e irripetibile, non solo perché Demòdoco è “cantor
... di cui / pari a quella d’un dio suona la voce”, ma perché
sanno
che le parole che usciranno dalla bocca del cantore in qualche modo li
riguardano. Certo riguardano Ulisse, che infatti piange dalla gran
commozione,
ma anche gli altri Feaci possono ascoltare nelle parole del rapsodo un
diretto riferimento alla loro storia, alle loro usanze, alla loro
visione
del mondo. In qualche modo la guerra di Troia è solo un pretesto
per catturare dentro una sfera magica la loro attenzione e lasciare che
liberamente la loro più intima umanità interroghi quegli
archetipi e quei simboli che si materializzano in immagini mentre
Demòdoco
canta. In assenza di realtà virtuale e di effetti speciali, che
in fin dei conti non sono altro che creature materializzate
dell’immaginario,
è l’immaginario stesso che si mette in moto.
E
mentre il poeta canta il silenzio regna nella stanza. Tutti ascoltano
questo
straordinario concentrato di prosodia, di senso, di normatività,
di etica, di estetica, di teologia, di sapere collettivo e universale
che
è la poesia epica.
La
poesia infatti, ai tempi di Omero, vive nella felice condizione di non
essere più appannaggio esclusivo della classe sacerdotale, ma
un’arte
che narra sempre più i fatti degli uomini, del loro rapporto con
gli dèi, la natura, la legge, il destino. Un’arte che è
parte
della vita sociale.
Il
poeta dunque, col suo canto, crea un mondo unico nel quale tutti i
diversi
mondi individuali trovano accoglienza, che permette una identificazione
dell’Io individuale con l’Io collettivo. Dunque, la poesia epica
è
ancora essenzialmente poesia religiosa, ma è qualcosa di
più
della poesia religiosa dei sacerdoti egiziani e babilonesi,
perché
è insieme storia, legge, usanza, senso di appartenenza (ad
un’unica
koinè), contenitore del sapere collettivo di un popolo insomma,
come in un certo senso fu la Bibbia per gli Ebrei. Da lì
nascerà
tutto: la filosofia, la poesia lirica, la musica, il canone estetico.
Non
esiste oggi qualcosa di paragonabile a quella poesia né lo
è
la poesia epica che seguirà ai poemi omerici, compresa la stessa
Eneide che pure si proponeva esplicitamente
come obiettivo ciò
che Omero fece non certo come calcolo o costrutto (anche se non
è
difficile intravvedere un’intenzione pedagogica, per così
dire, nei poemi omerici).
Dallo
smembramento della poesia epica nasceranno altre forme: la somma
tragedia
di Eschilo, i poemi filosofici dei presocratici (i molti Perì
physeos, il grande poema di Parmenide, gli aforismi asciutti e
ieratici
di Eraclito, il fantastico e mistico poema di Empedocle) e le opere di
molti altri, di cui a volte non abbiamo che il titolo – mentre i poemi
omerici, come una Bibbia, come un libro divino, si sono tramandati di
generazione
in generazione, sempre ammirati e mai eguagliati. C’è qualcosa
che
assomiglia al sentimento della nostalgia in questa vicenda.
Poi
venne anche la lirica, una poesia più moderna,
più
individuale, più adatta alla lettura che alla recita, e anche la
recita assume un altro significato: cessa in qualche modo di essere un
fatto rituale o lo è sempre di meno, per diventare uno
spettacolo,
un
agone. La poesia polimorfica ma unitaria che
vede in Omero l’esempio
sommo, si sfilaccia in mode e “contaminazioni” (così si direbbe
oggi) a volte molto diverse, tanto che sarebbe difficile farle risalire
a una sola origine. Soltanto Dante, con la sua “Comedia”,
riuscirà
ad eguagliare la vicenda dell’Odissea.
Ma
che cosa inchiodava i Feaci al silenzio, gli occhi incollati alla cetra
di Demòdoco, la commozione in petto, in quel religioso rispetto?
Certo, il rito, l’arithmós, il senso della misura e
dell’equilibrio,
dell’armonia che veniva da quei versi, da quella musica, da quel quid
rappresentato dalla situazione in sé, fuori dal tempo e dallo
spazio.
Però
anche un altro elemento, che mancherà nella poesia che
sarà
scritta per essere individualmente letta, li tiene come incatenati a
quella
rappresentazione. E’ l’elemento del corpo, la presenza fisica, il tono
della voce, il canto, la loro presenza all’evento che diventa essa
stessa
parte del poema recitato e che nel testo letto individualmente non
può
essere resa.
Da
allora in poi la poesia non ha più ritrovato il corpo. E’ vero,
si tengono a volta le recite, ma quali recite... Non c’è
paragone
fra la scena di Demòdoco che canta nella reggia dei Feaci e la
moderna
recita, dove il poeta sta dietro a un tavolo leggermente sopraelevato
rispetto
all’uditorio che è collocato a lui frontalmente; la voce viene
alterata
dal microfono, che spesso l’abbuia, fra fischi e crepitii dei ritorni
d’eco;
il suo viso è sfigurato dalle luci da macelleria (altro che
l’umano
e poetico lume delle lampade ad olio o delle fiaccole...). I
“convitati”
non mangiano nulla, e già l’assenza del “con-vito” è un
elemento
decisivo di de-socializzazione. Se levi gli occhi vedi quattro o cinque
signori, di là dal tavolo e il poeta fra questi, e poi vedi
nuche,
capelli di ogni tinta, pelate più o meno esibite. Che cosa
c’è
di poetico in tutto questo? Per la poesia satirica ci sarebbe molto: la
noia mortale che viene per dovere sociale dissimulata e che serpeggia
come
un “non detto” nell’aria, un tabù che nessuno osa infrangere. A
volte qualche verso afferrato, qualche guizzo di senso, sembrano
illuminare
lo sguardo dell’ascoltatore, strappandogli un moto di consenso, ma
tutto
finisce lì e, dal momento che ci si dorme sopra, alle sette del
mattino del giorno dopo nessuno più si ricorderà della
recita.
Questo
è il destino della poesia recitata. Questo il maltrattamento
rivolto
al nostro corpo, al corpo del poeta, alla sua voce, al suo impegno,
alla
sua – nonostante tutto – fede nella poesia, che viene
così
duramente messa alla prova. Nel segno del non-senso.
Eppure
noi sappiamo, sul corpo, molto più di quanto gli antichi
sapevano,
questi aspetti sono stati studiati e resi noti da molto tempo e
nonostante
tutto si continua, imperterriti, a celebrare i riti del non-senso, nel
tempo del banale e dell’effimero, quando ci sarebbe fame di senso, una
nostalgia da morirne.