Senecio
     SENECIO

Direttore
Emilio Piccolo


Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza


Mario Marchisio
Scheda biobibliografica

Egeo
Frammenti di gipsoteca
Il distacco appassionato
Dotte fustigazioni
 
 
 

Egeo
I

Com'è vuoto, com'è triste il mondo.
Le stagioni invano s'affaticano
Se anche le vesti loro più adorne
Coprono il velo multiforme
Della natura. Misera estate,
Saranno spade invisibili
Di gelo i canti delle cicale
Che il nostro cuore faran tremare;
Crudeli spade i tuoi dolci venti,
Primavera, e di corvi lugubri
Stormo infinito l'amore,
Le danze, il tuo riso soave.
Quale mestizia recherà l'autunno
Che Dioniso festeggia e i colmi tini!
Foglie dorate che il tramonto
Dell'anno viene ad alitare
Nell'aria scintillante, lo splendore
Vostro ad Arianna sconosciuto
Sarà: per lei solamente
Malinconia le nude braccia
Singhiozzando aprirà. Inverno
Fluttua inesausto già sopra il mare,
E invano mostra candide nevi
L'Olimpo: nero il cielo, neri i monti
Sono allo sguardo di chi è infelice.

II

Un arcipelago di morti volle
Il fato che dalle onde sorgesse,
Dai flutti lividi delle tenebre
Soffocatrici d'ogni speranza.
E ad uno ad uno caddero esangui
Nel gorgo voracemente
Schiuso, gli uni e gli altri sempre
Ciechi davanti all'abisso,
Ciechi davanti alla rovina.
Nell'arcipelago di morti manca
Ancora un'isola; domani
Lorderanno grumi di sangue
Fin dal mattino i suoi tristi lidi.
Morte adesso, famelica, affila
I lunghi artigli in agguato.
 
 

Frammenti di gipsoteca
 

Dionisiaca

Io, abraso, con un colpo secco.
Dall'orizzonte di quale vita?

Gabbiano esangue tuffa il suo becco
D'amara onda, neve impazzita…

Sì, arrotolato come uno stecco
Dentro la lingua del dio smarrita.

Ecate

"È il cielo della morte che rifrange
In duri fiocchi di lugubre argento.
Disfatti al suolo per troppo tormento,
In lei la luce come un grido d'angelo?

O il vuoto onnipotente la disserra
Con maggior forza quando l'occhio umano
Più si confonde – gelido titano –
Al brulichio di forme sempre in guerra?"

Invano nei deserti, fra le dune
Un'anima s'aggira interrogando;
La dea resterà muta, dilaniando
Chi folle invoca la sua notte illune.

Dionisiaca

La pinna
Alta nera fremente
Moltiplicata dalle acque
Su cui svetta implacabile
Custode di morte
Apparsa alle tue spalle mentre scherzavi
Con le morbide ciocche castane
Di colei che nessuno
Distinguerebbe da mani o viscere,
Stringhe, fibbie raggrinzite
In fondo allo stomaco del predatore;
Anche la pinna
E il sangue che imporpora le alghe
Come una rossa
Capovolta fiala
Sul marmo liquido fatto foresta
E lo strazio, e la maggior pena
Chiamata oblio;
Anche questo è sottomesso al dio. Il tuo stesso
Comprendere, il tuo
Fraintendere sono opera del dio.
Così il tremore con cui guadagni
La riva senza voce
Incespicando tra i rovi:
Voce chiarissima del dio
Che non distoglie lo sguardo se le fauci avvampano,
Se il gorgo si rastrema in una pinna
Alta, nera, lucente.

Il dono di Persefone

Le brevi parole che ora immagino di scriverti
Vorrei tu le leggessi con animo impassibile
Sotto un sole come questo, bramato e infine apparso
Miracolosamente dopo piogge innumerevoli.
Siedi dunque in giardino, fra la palma e l'oleandro,
Apri la busta azzurra, un po' sgualcita, e apprendi
Che sia il mio regno oscuro, muto algido sangue
Dove ancora mi smarrisci e mi ritrovi in un sorriso
Mentre fissi lo sguardo sulle onde lontane.
Io tramonto: tu sorgi: così tutto rinasce.
La sabbia, ieri grigia, si vena d'ambra e d'oro.
 

Il distacco appassionato
 

Saffo

Ti fece una dea, sapendo
I gemiti rochi e l'agonia
Delle vene contorte;
I tonfi, i lividi slanci
Del sangue sopra l'altura.
Ti fece una dea. Consòlati.
 

Carmen saeculare

Anche se è vano, vano, vano,
Ridere o piangere nell'ombra della vita
(E forse è vano anche pensarlo);
Cogliamo insieme la fulva margherita
Del mondo e la sua luce su noi regni
Come lacrima gioiosa: breve ed infinita.
 

Phantasmata

Alba. Righe di neve. L'opaco argento
Che balugina là fuori in mezzo al vento
Mi riporta – freddo sole – il tuo sorriso,
Anima, e la tua voce all'improvviso.
«Volli salpare verso terre lontane
In solitudine; in silenzio d'arcane
Pianure io sola, in braccio al mio groviglio,
Corsi inesausta miglio dopo miglio.
Tremavo – come te adesso –, ed un'oscura
Segreta forza domò la mia paura,
Mi spinse avanti; di colpo mi trattenne.
Ma l'ultimo prodigio non avvenne:
(Fui sorda, facendo inutile il consiglio)
Nessun prodigio, solo un'ebbrezza strana
E senza mèta. E il capire che in esilio
Se aquila vola ogni sua penna è vana».
 

Verso la quiete

Ad un'ansa del fiume Apollo
M'ha incontrato: vestiva cieco
Splendore e sandali d'argento.

Mentre l'acqua disegnava intorno
Cerchi, vide il mio turbamento
E in ginocchio lo costrinse.

Alla gola, poi, gli avvinse
Mani bianche un dolce oblìo.

Dotte fustigazioni
 

Frivolezze d’oltretomba

– Mammina, perché le mummie dell’Egitto
Stavano sempre così bendate?
– Per conservarsi calde nel tragitto …
– Ma sei proprio sicura? Anche d’estate?
 

Inno apoplettico di Prometeo liberato

E taccia il mellifluo canto
Del caos umano, accanto
A me balzino soltanto
I rigidi contorni
Della luna e bianche, informi
Nebbie e una scia d’artigli;
E rocce per giacigli
Svettino enormi.
Io agogno ricompormi
(Fui cieco, muto, sordo)!
All’ombra di peschi o tigli,
Dalle radici madide ai grovigli
Del cielo infine vinto
Un labirinto
Vuoto come l’estinto
Mare di tonni, di smerigli,
Filtrando in filiformi
Raggi abolisca gli dèi deformi;
Cancelli, provvido, il balordo
Ronzar degli uomini e il ricordo.
 

Macrophilus a Madame de Warony

Quando per te il sepolcro
Spalancherà le fauci
E sulle vie dell’Orco
In compagnia dei marci

Capelli rossi e fetidi
T’inoltrerai gemendo,
Io in mille feste splendide
Mi befferò ridendo

Del crisantemo squallido,
Della tua tomba nuda:
Madame, non so che farmene
D’un po’ di carne cruda” ...

I fiori dell’Elisio
Li coglierai da sola,
Per te saranno viscide
Serpi annodate in gola;

Nel regno di Persèfone
Ti lascerò vagare
Coi bianchi freddi lemuri,
Né ti verrò a cercare;

Oh sbagli se mi immagini
Orfeo sulle tue tracce:
Pernacchie, vituperii
Ti elargirò, e boccacce!

E tu con altre smorfie
Nascosta dal sudario
Agitando le gonfie
Dita che i vermi sdegnano

Come novello Sisifo
Sospingerai quel masso,
Che lieto per offenderti
Rotolerà più in basso;

Ed io forgerò carmi
In lode di una nuova
Pulzella, e nel cantarli
Le schiuderò l’alcova

Un tempo a noi sacrata.
Tu nell’avello: al talamo
La ninfa mia beata.
 

Marii Macrophili de femina libellus

Nacque ad un parto con le Furie andròfone
E in breve le spogliò della corona
Che ancora spande amaro lume ctonio.

Come sentenzia il vescovo d’Ippona,
La femmina è soltanto un insaziabile
Utero dal perenne mercimonio.

Folle chi smania per la sua dolcezza:
Più folle se non fiuta in quella maschera
L’Alfa e l’Omega di spietatezza.

Non ama; ammira, forse, chi la sprezza;
Calcola sempre, simula, farnetica
Languori, ma è regina di durezza.

La femmina (non l’uomo) ha “senso pratico”:
Il che, detto alla spiccia ed alla buona,
Significa: più iniqua del demonio.
 

Dialogo dietologico

CORO:
Sull’acque appena mosse
Rintocca l’ora media.
Di che ti duoli, o Venere?
Ogni cibo ti tedia?

AFRODITE:
Bionde, castane e rosse
Più magre d’una sedia
Fan delirare gli uomini
Con l’arte dell’inedia!

EFESTO:
Tu sai con quante scosse
Da Capri a Nicomedia
Ti dimostrai qual fervido
Desio di te m’assedia.

AFRODITE:
Alle mie forme grosse
Nessuno ormai rimedia,
Neanche il chirurgo plastico
Dal trono ove s’insedia!

CORO:
Se il corpo non ci fosse
Sarebbe una tragedia.
Ma c’è, rassicuriamoci,
È tutta una commedia.
 

Dopo aver letto “Heroides” e “Tristia” scende in giardino e v’incontra Galatea

Ecco, il gran libro è chiuso; al molle Ovidio
Sublime artefice ricamatore
D’inenarrabile grato languore
Sarà che un bel sospiro io non affidi?

I pregi in lui pur tanti e fascinosi,
Tu dell’anima mia scudo e presidio,
Tu, Amore, mi hai mostrato con gl’infidi
Tratti di chi mi fece i giorni odiosi;

Tua la colpa perciò, soltanto tua,
Se all’esule di Tomi un vile e smorto
Canto ora innalzo, e non l’ardita prua

Di nobile poesia. Ahi la ferrigna
Di quella Galatea che mi vuol morto
Lussuria infesta più della gramigna!
 

Osavo dire: “Lei volteggia come neve”

Osavo dire: “Lei volteggia come neve
All’alba, tenue, biondo miele dell’Imetto”.
Osavo dire: “Dal suo ciglio vola stretto
Fra perle e baci l’infallibile suo dardo;
Vino di Creta, d’India azzurro spicanardo
Bevi sfiori annusi quando ti giunge al petto.
E lei sorride, e un ineffabile diletto
È in quelle labbra schiuse vesti di regina
Ma senza orgoglio: pura forza in puro sguardo.
Il sangue che nelle vene le scorre docile
Lo senti battere alle tempie, già pruina
Sul collo, un gemere di nottole veloci” … 


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