Senecio
     SENECIO

Fondatore
Emilio Piccolo

Direttore
Andrea Piccolo e Lorenzo Fort



Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza

Armando Rudi
Scheda biobibliografica


 

1. Sdegno

Poi succedono giorni senza vento.
Anche il figlio rimasto con il Padre
ha le sue crisi: crisi depressive.
Come avviene non sa bene descrivere:
le gioie della vita familiare,
la dedizione all'operosità, 
la rispondenza ai richiami fantastici
improvvise dileguano.
Una nebbia lo avvolge.
Aggredito da noia corrosiva
si fa sdegnoso, lontano; s'ammuta.
Non chiede aiuto: non ne ha l'abitudine.
Non fa romanzi: nulla in lui traspare
delle assenze numeriche
della sua vita che figura piena.
Perché lavora, produce, rincasa
ogni sera a giusta ora, e saluta,
lo si crede in un danno passeggero.
Ma il vuoto che lo assedia è un vero baratro.

Gli giungono notizie del fratello
transfuga nei bagordi e nei postriboli:
gli si rimesta il sangue. Egli infatti
non frequenta le donne. Perché goffo,
crudo, introverso, sa che non le attira.
Da nessuna di quelle che ambirebbe
– lontane, irraggiungibili, preziose –
potrà avere uno sguardo d'interesse.
(Quanto alle altre, a quelle del mestiere,
non è il caso nemmeno di parlarne, 
sebbene una fraterna compassione
gliele faccia comprendere: le colloca
al polo opposto dello  stesso globo,
dello stesso pianeta di tormento.)
Ma ciò che nei periodi di grazia
gli risultava assenza sopportabile
ora lo lancina. Ora il pensiero
indugia sul contesto della donna.
La lente che ingrandisce della smania
lo lusinga d'abbagli,
e solo per istinto a diffidare,
che in lui s'innerva su istanze morali,
s'astiene dall'ardire esperimenti.
E tuttavia crede, suo malgrado,
di subire estenuante frustrazione
immeritata. Spesso, al riaversi 
– frequenti svagatezze subitanee
disturbano le menti che intristiscono –
scopre d'aver vagato in quel tormento.
Potesse, distraendosi, alleviarlo!
Ma ne risulta inabile:
da come vede che altri si comportano,
e dai ricordi del fratello estroso,
conclude ch'è inadatto a diversivi.
Nemmeno può affogare la sua pena
in banchetti vistosi di parole …
e se anch'egli partisse?
A che scopo restare, con un Padre
che diviene ogni giorno evanescente
più del giorno trascorso, che s'infatua
per un figlio degenere, che pesa!

Ma questa d'una vita insoddisfatta,
vita senza inni e senza lampadari,
non è nemmeno la faccia peggiore
del poliedro di cupe sensazioni
che – peso quasi fisico – l'opprimono.
Nel suo stato di pena,
anche l'atto comune della fede
diviene pesantissimo.
Un'immagine esprime questo aggravio
più di tante parole:
il cavallo da tiro che di colpo,
imbolsito, s'impunta.
È un ricordo d'infanzia, ricorrente,
e intriso di penoso raccapriccio.
Ma in memoria, per quanto emerga vivido,
l'episodio è carente d'una fine:
il ricordo si ferma ai tentativi,
condotti da più parti e in modi vari,
sulla mole che nega di rimuoversi.
Certo ve lo sottrasse, preveggente,
una mano decisa.
Né rammenta di avere domandato.
O forse chiese, e il responso che n'ebbe
lo divagò dal quesito proposto.
Ora egli stesso è in causa,
l'energia dei muscoli mentali,
l'apparato motorio dell'impegno.
La visione del vuoto metafisico,
Medusa che pietrifica, e l'accidia,
cupa novella Circe
priva dei connotati di lascivia,
sono le istitutrici del momento.
Un verbo nuovo lo ispira:
antiparola, dove, per parola,
è da intendere quanto di superfluo,
di ridondante, inutile, illusorio,
abbonda nella cerchia degli uomini.
Ne sono pieni anche i templi del Padre,
che lascia fare, senza nulla opporre,
di che egli si rode. Per reazione
conia definizioni corrosive,
come quella – terribile, lo ammette –
che dà della natura variegata
che ravviva la crosta della Terra,
la biosfera, con termine scientifico:
"splendida squamatura
d'una perfetta macchina di morte".
Pregare gli risulta insopportabile:
se a volte vi ricorre,
è solo per tramettere la supplica:
"Non chiedermi entusiasmo: non ne ho più."
Unghie secche per linfa insufficiente,
i pensieri si rompono.
Latta vuota la mente,
rifiuto destinato a scomparire.
Mano non la raccoglie tuttavia,
ed essa vaga, rotola, s'imbraga
negli scoli del tedio.
Oh che un piede la schiacci!
 

2. Ode pour l’election de son sepulcre
Omaggio ad Ezra Pound

Clio occhilucenti, ecco la mia urna mondata, 
deponila sulla riva gigliata della risacca volubile
aqua laudatur sit et mare e la sabbia di silice
accerchiala di tua mano al fico d’india là in cima 
intrapreso di roccia e molli acuminate midolla
della mia morte risorta rimbombano le orecchie.
Al sacello traslucido di luce vesperale 
o biacca colore d’arenile Clio,  sii saggia,
dissuggella sinuosa il cuneo della mia conchiglia
sollazza l’ermetico impolverato pallottolarmi 
e dunque astuccio d’aria alzarmi in ala vagante
E tronco di quercia incava  per depormici in fama
Uccelli, grilli,  a trillare della dissoluzione giapprima
pascunt et alunt meam animan ad libitum
j’ai trouvé une goutte de vermeille en fin
do it, immortala la mia secca grancassa dalle ore aduse
tempus tacendi nessun serto da posteri o Muse.
 

3. Apocalisse

All’ombra della pineta tacita s’agguanta
L’afa sdolce d’agosto come lenzuoli umidi
E non una freccia di vento insinua il piede
Tra cipii di passeracei, anche la lucertola tace.
Nell’ora della calura vale lo scrollo della cicala
Ai timpani con le ali a cocca, trilla la sua vittoria
Beffarda umida sul vigore  della pista tracciata
Prima della spossatezza, prima che si perdessero
I propositi delle prime luci. Sono arse le ninfe
gli gnomi e gli elfi nel fradicio ribollire d’agosto
E una tara sospesa e spettrale accudisce il bosco.
Sfatto il terreno ruggine schierato dalle formiche
Pesa oltre la chioma-ombrella un pallidissimo cielo
Con una musica che non si regge, abbacinata e greve,
Tace il ritmo del mare oltre il corredo di sabbia
Perché Tritone ha abbandonato i flutti e Eolo l’otre
Ogni sostanza si è cangiata in onta o risucchio
E non c’è chi possa guardare intorno e puntellarsi
sull’esilio immobile di un libro scritto di ignoto.
Si sfaldano i lacerti mentali contro l’inevidenza
Danza alla gravità a decrescere la bonaccia del corpo
Derelitto in nuova estraneità, scarto di mondo.
È lo sceneggiatore che oggi fa fuoco e domani neve
E ci sforza a ognora con l’esile staffile del suo grimaldello
E parla oscuro in incognita, ci risparmia o ci doppia
Nulla che rassicuri il brivido che d’agosto ti prende

4. Poiematica dis-persa
 

Perché il futuro impaura

È stata la scoperta del futuro,
leggo in un breve saggio filosofico,
a suscitare nella specie umana
il sentimento oscuro dell’angoscia.

Questo perché – il saggio non lo dice,
ma lo fa intendere – il futuro poggia
sulla categoria dell’ignoto.
Ed è notorio che l’ignoto impaura.

Conviene tuttavia domandarci
a quale causa attribuire il fatto
che l’ignoto cagioni la paura.
Una soltanto, a mio giudizio: il noto.

Per noto intendo il passato e il presente.
Un presente e un passato così orrendi
quali esperienza e storia ci propongono,
precludono fiducia nel futuro.

Avessimo un passato e un presente
sereni, lieti, avessimo una storia
consolatrice, un’esperienza fausta,
neanche un futuro ignoto impaurirebbe.
 

Chi maledire

Anima che soffri l’insoffribile,
non maledire il Creatore.
Maledici il creato,
così puoi dare sfogo al tuo disdegno
evitando la Geenna
e restando nel vero.

Perché il creato è stato maledetto,
e maledetto è tuttora
nonostante le sue bellezze,
nonostante le sue seduzioni,
e nonostante che i giusti si prodighino
per affrettarne il riscatto.
 

Il quid

Per esistere, esiste.
Ma non si sa cos’è.
Lo dovremmo sapere,
ma è un mistero in sé.

Quale quid? Quello che,
breve nel tempo o eterno,
fu la radice, od è, 
di guasto e sofferenza.

Qualunque essenza abbia
– occasione o perché
del male planetario –
l’odio con tutto me.
 

5. Per gli innocenti
Canto sulle morti degli esseri inferiori procurate dall’uomo
 

Quello che segue è il canto delle morti,
le innumerevoli, le inconcepibili
morti degli esseri inferiori all’uomo,
delle innocenti, ingenue bestie, morti
procurate dall’uomo in un contesto
di millenarie, assurde aberrazioni,
di pretese insipienti od egocentriche,
di brame di dominio e sfruttamento,
di melense opinioni, di malizie
che non accennano a diminuire,
anzi proliferano, e per le quali,
Morte, dannata e torbida voragine,
io domando giustizia.

Per i cuccioli foca
barbaramente uccisi a bastonate
presso i cuori impazziti delle madri
per ottenere pellicce di pregio,
frivolezze che gridano abominio,
io domando giustizia.

Per i mesti pennuti
scannati in modo atroce e dissanguati
col posizionamento a testa in giù,
perché nessuna goccia vada persa
del coagulo che serve ad ammannire
i caldi, succulenti sanguinacci,
io domando giustizia.

Per gli ingenui volatili
che dalle feritoie dei capanni,
complice la perfidia dei richiami,
assatanati tiratori bruciano
per piatti d’anfitrionici festini,
io domando giustizia.

Per falangi di tori
uccisi brutalmente nelle arene
delle corride, folli e vergognose
per l’evidente imparità di forze,
al turpe scopo di portare vanto
a pochi tronfi, profitto a più scaltri,
torbida eccitazione a molti ignavi,
io domando giustizia.

Per legioni di cani
incatenati ai cosiddetti tavoli
di contenzione (grottesco eufemismo),
resecati nei tendini vocali
perché i lamenti che dovranno emettere
non divengano grido e non disturbino;
e sottoposti, senza un anestetico,
ad aberrranti techinche chirurgiche
che non provano nulla e sono solo
corredo indegno per patenti e titoli
di baroni del bisturi ed adepti,
io domando giustizia.

Per le schiere bovine
macellate con metodi brutali
in mattatoi bolgeschi, dove grida,
muggiti, schianti, mazze, picche, sangue,
balenare di lame e di roncigli,
odori nauseanti, e ancora sangue,
si susseguono in stragi inetrminabili
mantenute segrete per non ledere
la delicata sensibilità
dei devoti alla carne sulle tavole,
io domando giustizia.

Per gli antichi cetacei
portati ad un tracollo d’estinzione
grazie al dispiegamento micidiale
di baleniere: fabbriche natanti
che li arpionano, li issano sul ponte,
e lì, incuranti se ancor vivi o morti,
subito ne trasformano la mole
in prodotti finiti – sbarcheranno 
così all’approdo dovizia impensabile
di varie confezioni etichettate,
lucide, tanto che nulla traspare
del macabro misfatto da cui vengono –,
io domando giustizia.

Per le bestie infelici
condannate a una vita prigioniera
in gabbie o in catene dal volere
depravato di uomini insipienti,
disposti a tanto per guadagno, o creduli
di cavarne decoro, distinzione,
o padronanza, o gioia; e che invano
insistettero e insistono per giorni,
per anni, per decenni a liberarsene,
sognando invano i loro spazi vasti,
stordendosi nei brevi andirivieni,
intristendo, penando, alienandosi,
respingendo l’avverso nutrimento
a volte fino a estrema inanizione,
io domando giustizia.

Per gli oscuri olocausti
di migliaia e migliaia d’animali
sacrificati all’idolo progresso
con la trasformazione di vallate
in bacini idroelettrici: fenomeno
che ha comportato distruzione rapida
di colonie viventi nelle tane
sorprese dall’alzarsi delle acque
cupo e imprevisto; invasate di panico,
sconvolte dal terrore, non capaci
d’intuire la via dello scampo,
o se intuita a darvi esecuzione,
così da terminare i loro giorni
in un annegamento collettivo,
io domando giustizia.

Per innumeri cavie
sacrificate nei laboratori
sedicenti scientifici: gironi
peggio che gl’infernali del Poema,
dalle orrende sevizie, cui soggiacciono
viventi responsabili soltanto
di non avere intelligenza. Un cuore
hanno però, una coscienza vigile,
un sentimento, con i quali accusano
la violenza su di essi perpetrata
come un’intollerabile aporia,
e chiedono perché tanto soffrire
senza colpevolezza e senza premio.
Per esse, sventurate da compiangere,
io domando giustizia.

Per i tristi animali
bruciati vivi senza via di scampo
nei roghi degli incendi forestali
appiccati da stupidi piromani
a scopo di sollazzo distruttivo,
o da facinorosi senza scrupoli
per vendetta, per calcolo, per rabbia;
che resero la vita in urla orrende
carbonizzando dopo immenso strazio,
io domando giustizia.

Per le carneficine
di bestie amabili su infide strade
di traffico scorrevole od intenso,
specie nei giorni di maggiore esodo,
quando l’intelligente progredito
non intende più nulla che non sia
velocità, per ebbrezza od urgenza,
così che, anche potendo, mai non frena
per salvare una vita, mai non scarta:
e noi si assiste a corpi massacrati,
ad interiora spappolate, a squarci
raccapriccianti, a poltiglie insanguate,
io domando giustizia.

Per più che tanti, troppi,
incalcolabili in numero e in specie
(non poche estinte) animali soppressi
nelle forme più varie, spesso subdole,
insospettabili, d’inquinamento:
dalle flore trattate a pesticidi
che fanno strage di canori alati,
di rosicanti, arvicoli ed insetti,
ai mari contagiati di petrolio
che sopprimono faune marine
ricche di esemplari: un coacervo
di degradi ecologici causati
dall’insipienza della brama umana
di dominio e ricchezza, e comportanti
atroci, lunghi spasimi mortali,
io domando giustizia.

Per altre moltitudini
di animali la cui vita estinse,
ed estingue tuttora, senza freni,
l’attività – che si proclama nobile
per tradizione e contenuti umani –
di nome caccia: nobile giammai,
giustificata quando costituiva
il solo modo per trovare cibo,
oggi superflua: sport cruento ed impari,
sfogo di deleterie propensioni 
alla violenza, al predominio, al sangue,
io domando giustizia.

Per le solide bestie 
di grande mole, soprattutto equidi,
che il corpo sciagurato delle guerre
vide usati per soma o per assalto
dagli eserciti avversi, e soccombettero
nel corso delle azioni militari
rimanendo sui campi di battaglia,
finendo i loro giorni in agonie
d’immenso strazio per ferite orrende,
partecipi di un fato sventurato
per la pretesa stolida dell’uomo
di coinvolgere in gesta bellicose
partorite da odio, cupidigia,
da cecità, vendetta, predominio,
innocenti, pacifiche creature,
io domando giustizia.

Per gli equorei animali
dilaniati in un attimo terribile
da esplosioni atomiche di prova
sottomarine, per quelli terricoli
che fecero e faranno uguale fine
in prove sottoterra o in superficie,
per tutti gli animali del creato
uccisi dagli scoppi degli ordigni
di guerra, in situazioni simulate
oppure operative: enorme numero,
legione che c’inchioda al nostro inganno,
io domando giustizia.

Per le schiere animali
immolate con cieco oscurantismo
sulle are dedicate ai veri dèi
nella becera, illusa convinzione
che qualche gesto – ieratico di forma
ma vuoto e menzognero di sostanza –
potesse trasferire in quelle carni
le malefatte e i crimini gravanti
sulle coscienze umane; animali
uccisi nel tripudio delle feste
a centinaia, in repiclati riti
che davano ai devoti eccitazione
tra profumi di sangue e d’olocausti,
io domando giustizia. 

Per le non meno estese 
schiere di eterogenei animali
sacrificati in cerimonie magiche,
in pratiche fasulle d’aruspicio,
o guaritorie, o stregonesche, od anche
potenziative delle doti umane
(medicamenti, droghe, afrodisiaci
falsi e bugiardi come antichi dèi):
capitolo che gronda di abominio
e non ancora chiuso ai nostri giorni,
io domando giustizia.

Per i rettili, e affini,
che una sedicente profezia
condannò a strisciare nella polvere
causa un presunto ruolo menzognero,
la cui vista ci suscita ribrezzo
solo perché ci siamo allontanati
da un commercio sereno con Natura,
nei quali trasferimmo – come al solito
peccando d’incallita incoerenza –
le nostre non lineari propensioni
a malizia, a scaltrezza, a raggiro;
che seppure dotati di veleno
ne fanno uso soltanto se aggrediti,
timidi preferendo darsi a fuga
quando sentono giungere disturbo,
e che noi uccidiamo con furore
senza discernimento, in ogni caso
ci si parino innanzi, in ogni evento,
io domando giustizia.

Per quanti, da compiangere,
animali che l’uomo ha sempre ucciso,
o portato a morire o ad uccidersi
a scopo di diletto o passatempo:
dai piccioni sfornabili a bersaglio
di tronfi tiratori facoltosi
che sdegnano i volgari allettamenti,
ai sauri minuziosi che un monello 
priva di zampe e poi trafigge i brucia;
dai galli battaglieri, contrapposti
in duelli mortali tra un vociare 
d’uomini eccitati che scommettono,
incitano, urlano, esplodono, esècrano,
ai quadrupedi vari che soccombono
nelle sagre paesane di contrade
dove l’arretratezza si fa schermo
del paravento della tradizione;
dai circhi dove molti non resistono
ai duri apprendistati e tirocini,
alle mode aberranti, come quella
che batuffoli implumi ricolora
di vernici sintetiche, dannandoli
a impedimento di traspirazione
e quindi a morte lenta ma sicura;
per queste ed altre, tante altre morti
di medesimo stampo e uguale marchio,
io domando giustizia.

Per gli splendidi, a rischio
di fine prematura e violenta,
animali dotati di pelliccia,
di cui ingente numero ha provato
e prova le tagliole, le imboscate,
i metodi brutali, le angherie
escogitate dall’intelligente
per venirne in possesso e farne capo
di vestiario supremo, raffinato;
soggetti a morte quasi sempre atroce
perché non venga leso da ferite 
o strappi il manto ambìto; animali
non solo catturati nel loro habitat,
ma fatti nascere e allevati a posta
in intensivi allevamenti, cioè a dire
in forme indegne di cattività,
io domando giustizia.

Per gli amici dell’uomo,
cani e gatti domestici, voluti
per capriccio dai figli o dal consorte,
o per moda, o per guardia, o attrazione,
forse per compagnia da chi è solo,
ma senza un vero vincolo d’affetto,
e che al primo contrasto, al primo incomodo,
o perché fatti grandi e turbolenti
più di quanto facesse prevedere
la loro forma di graziosi cuccioli,
o perché, infine, d’impaccio nel giorno
in cui l’aggruppamento familiare
s’avvia verso il luogo delle ferie,
vengono abbandonati: da quell’attimo
inizia per le povere bestiole
il calvario funesto del randagio:
smarrimento, percosse, fame e sete,
pericoli, stanchezza, inanizione,
finché, accalappiate, si ritrovano
in ricoveri inospiti, dai quali,
se nessuno perviene a prelevarle,
escono eliminate da una spiccia
iniezione letale. Tutto questo
avviene per numero incredibile
di vite disprezzate, per le quali
io domando giustizia.

E per i senza numero
animali che l’uomo ha eliminato
in infiniti differenti modi
oltre quelli elencati – pachidermi
abbettuti a decine di migliaia
al solo scopo di ottenere avorio
(i corpi, se non pasto d’avvoltoi
o iene, si consumano in putredine);
pesci rapiti alle acque; moltitudine
che il vasto repertorio di catture
condanna ad agonie e morti sadiche
stimate meno gravi perché mute;
rane private vive delle cosce
(le sole a costituire un piatto tipico)
e poi buttate nell’ammasso mutilo
a rendere la vita agonizzando:
elenco in cui rifiuto di procedere
perché risulterebbe troppo lungo
e graverebbe il cuore d’un macigno
sommamente pesante, insopportabile –
io domando giustizia.

Morte,
che hai nell’uomo il tuo più fido servo,
l’esecutore più ossequiente, il boia
più assiduo nell’attuare i tuoi verdetti,
l’adepto più esaltato e più tenace,
il braccio destro più zelante, Morte,
giustiziera non giusta, oscurantista,
inficiata da indegne propensioni
a sevizie, a torture, a sofferenze
inopportune al tuo mandato estremo,
più controproducenti che valevoli
a darci il senso del tuo scopo ultimo
tanto che noi ti detestiamo, Morte,
per quanti innumerabili interventi
su vite inconsapevoli e incolpevoli
ti sei servita dell’agire umano,
ti servi e servirai oggi e in futuro,
io domando giustizia,
io richiedo giustizia, 
io pretendo giustizia.

6. Caedes aeterna


Quello che segue è il canto delle morti,
le innumerevoli, le inconcepibili
morti degli esseri inferiori all’uomo,
delle innocenti, ingenue bestie, morti
procurate dall’uomo in un contesto
di millenarie, assurde aberrazioni,
di pretese insipienti od egocentriche,
di brame di dominio e sfruttamento,
di melense opinioni, di malizie
che non accennano a diminuire,
anzi proliferano, e per le quali,
Morte, dannata e torbida voragine,
io domando giustizia.
 

Per i cuccioli foca
barbaramente uccisi a bastonate
presso i cuori impazziti delle madri
per ottenere pellicce di pregio,
frivolezze che gridano abominio,
io domando giustizia.
 

Per i mesti pennuti
scannati in modo atroce e dissanguati
col posizionamento a testa in giù,
perché nessuna goccia vada persa
del coagulo che serve ad ammannire
i caldi, succulenti sanguinacci,
io domando giustizia.
 

Per gli ingenui volatili
che dalle feritoie dei capanni,
complice la perfidia dei richiami,
assatanati tiratori bruciano
per piatti d’anfitrionici festini,
io domando giustizia.
 

Per falangi di tori
uccisi brutalmente nelle arene
delle corride, folli e vergognose
per l’evidente imparità di forze,
al turpe scopo di portare vanto
a pochi tronfi, profitto a più scaltri,
torbida eccitazione a molti ignavi,
io domando giustizia.
 

Per legioni di cani
incatenati ai cosiddetti tavoli
di contenzione (grottesco eufemismo),
resecati nei tendini vocali
perché i lamenti che dovranno emettere
non divengano grido e non disturbino;
e sottoposti, senza un anestetico,
ad aberrranti techinche chirurgiche
che non provano nulla e sono solo
corredo indegno per patenti e titoli
di baroni del bisturi ed adepti,
io domando giustizia.
 

Per le schiere bovine
macellate con metodi brutali
in mattatoi bolgeschi, dove grida,
muggiti, schianti, mazze, picche, sangue,
balenare di lame e di roncigli,
odori nauseanti, e ancora sangue,
si susseguono in stragi inetrminabili
mantenute segrete per non ledere
la delicata sensibilità
dei devoti alla carne sulle tavole,
io domando giustizia.
 

Per gli antichi cetacei
portati ad un tracollo d’estinzione
grazie al dispiegamento micidiale
di baleniere: fabbriche natanti
che li arpionano, li issano sul ponte,
e lì, incuranti se ancor vivi o morti,
subito ne trasformano la mole
in prodotti finiti – sbarcheranno
così all’approdo dovizia impensabile
di varie confezioni etichettate,
lucide, tanto che nulla traspare
del macabro misfatto da cui vengono –,
io domando giustizia.
 

Per le bestie infelici
condannate a una vita prigioniera
in gabbie o in catene dal volere
depravato di uomini insipienti,
disposti a tanto per guadagno, o creduli
di cavarne decoro, distinzione,
o padronanza, o gioia; e che invano
insistettero e insistono per giorni,
per anni, per decenni a liberarsene,
sognando invano i loro spazi vasti,
stordendosi nei brevi andirivieni,
intristendo, penando, alienandosi,
respingendo l’avverso nutrimento
a volte fino a estrema inanizione,
io domando giustizia.
 

Per gli oscuri olocausti
di migliaia e migliaia d’animali
sacrificati all’idolo progresso
con la trasformazione di vallate
in bacini idroelettrici: fenomeno
che ha comportato distruzione rapida
di colonie viventi nelle tane
sorprese dall’alzarsi delle acque
cupo e imprevisto; invasate di panico,
sconvolte dal terrore, non capaci
d’intuire la via dello scampo,
o se intuita a darvi esecuzione,
così da terminare i loro giorni
in un annegamento collettivo,
io domando giustizia.
 

Per innumeri cavie
sacrificate nei laboratori
sedicenti scientifici: gironi
peggio che gl’infernali del Poema,
dalle orrende sevizie, cui soggiacciono
viventi responsabili soltanto
di non avere intelligenza. Un cuore
hanno però, una coscienza vigile,
un sentimento, con i quali accusano
la violenza su di essi perpetrata
come un’intollerabile aporia,
e chiedono perché tanto soffrire
senza colpevolezza e senza premio.
Per esse, sventurate da compiangere,
io domando giustizia.
 

Per i tristi animali
bruciati vivi senza via di scampo
nei roghi degli incendi forestali
appiccati da stupidi piromani
a scopo di sollazzo distruttivo,
o da facinorosi senza scrupoli
per vendetta, per calcolo, per rabbia;
che resero la vita in urla orrende
carbonizzando dopo immenso strazio,
io domando giustizia.
 

Per le carneficine
di bestie amabili su infide strade
di traffico scorrevole od intenso,
specie nei giorni di maggiore esodo,
quando l’intelligente progredito
non intende più nulla che non sia
velocità, per ebbrezza od urgenza,
così che, anche potendo, mai non frena
per salvare una vita, mai non scarta:
e noi si assiste a corpi massacrati,
ad interiora spappolate, a squarci
raccapriccianti, a poltiglie insanguate,
io domando giustizia.
 

Per più che tanti, troppi,
incalcolabili in numero e in specie
(non poche estinte) animali soppressi
nelle forme più varie, spesso subdole,
insospettabili, d’inquinamento:
dalle flore trattate a pesticidi
che fanno strage di canori alati,
di rosicanti, arvicoli ed insetti,
ai mari contagiati di petrolio
che sopprimono faune marine
ricche di esemplari: un coacervo
di degradi ecologici causati
dall’insipienza della brama umana
di dominio e ricchezza, e comportanti
atroci, lunghi spasimi mortali,
io domando giustizia.
 

Per altre moltitudini
di animali la cui vita estinse,
ed estingue tuttora, senza freni,
l’attività – che si proclama nobile
per tradizione e contenuti umani –
di nome caccia: nobile giammai,
giustificata quando costituiva
il solo modo per trovare cibo,
oggi superflua: sport cruento ed impari,
sfogo di deleterie propensioni
alla violenza, al predominio, al sangue,
io domando giustizia.
 

Per le solide bestie
di grande mole, soprattutto equidi,
che il corpo sciagurato delle guerre
vide usati per soma o per assalto
dagli eserciti avversi, e soccombettero
nel corso delle azioni militari
rimanendo sui campi di battaglia,
finendo i loro giorni in agonie
d’immenso strazio per ferite orrende,
partecipi di un fato sventurato
per la pretesa stolida dell’uomo
di coinvolgere in gesta bellicose
partorite da odio, cupidigia,
da cecità, vendetta, predominio,
innocenti, pacifiche creature,
io domando giustizia.
 

Per gli equorei animali
dilaniati in un attimo terribile
da esplosioni atomiche di prova
sottomarine, per quelli terricoli
che fecero e faranno uguale fine
in prove sottoterra o in superficie,
per tutti gli animali del creato
uccisi dagli scoppi degli ordigni
di guerra, in situazioni simulate
oppure operative: enorme numero,
legione che c’inchioda al nostro inganno,
io domando giustizia.
 

Per le schiere animali
immolate con cieco oscurantismo
sulle are dedicate ai veri dèi
nella becera, illusa convinzione
che qualche gesto – ieratico di forma
ma vuoto e menzognero di sostanza –
potesse trasferire in quelle carni
le malefatte e i crimini gravanti
sulle coscienze umane; animali
uccisi nel tripudio delle feste
a centinaia, in repiclati riti
che davano ai devoti eccitazione
tra profumi di sangue e d’olocausti,
io domando giustizia.
 

Per le non meno estese
schiere di eterogenei animali
sacrificati in cerimonie magiche,
in pratiche fasulle d’aruspicio,
o guaritorie, o stregonesche, od anche
potenziative delle doti umane
(medicamenti, droghe, afrodisiaci
falsi e bugiardi come antichi dèi):
capitolo che gronda di abominio
e non ancora chiuso ai nostri giorni,
io domando giustizia.
 

Per i rettili, e affini,
che una sedicente profezia
condannò a strisciare nella polvere
causa un presunto ruolo menzognero,
la cui vista ci suscita ribrezzo
solo perché ci siamo allontanati
da un commercio sereno con Natura,
nei quali trasferimmo – come al solito
peccando d’incallita incoerenza –
le nostre non lineari propensioni
a malizia, a scaltrezza, a raggiro;
che seppure dotati di veleno
ne fanno uso soltanto se aggrediti,
timidi preferendo darsi a fuga
quando sentono giungere disturbo,
e che noi uccidiamo con furore
senza discernimento, in ogni caso
ci si parino innanzi, in ogni evento,
io domando giustizia.
 

Per quanti, da compiangere,
animali che l’uomo ha sempre ucciso,
o portato a morire o ad uccidersi
a scopo di diletto o passatempo:
dai piccioni sfornabili a bersaglio
di tronfi tiratori facoltosi
che sdegnano i volgari allettamenti,
ai sauri minuziosi che un monello
priva di zampe e poi trafigge i brucia;
dai galli battaglieri, contrapposti
in duelli mortali tra un vociare
d’uomini eccitati che scommettono,
incitano, urlano, esplodono, esècrano,
ai quadrupedi vari che soccombono
nelle sagre paesane di contrade
dove l’arretratezza si fa schermo
del paravento della tradizione;
dai circhi dove molti non resistono
ai duri apprendistati e tirocini,
alle mode aberranti, come quella
che batuffoli implumi ricolora
di vernici sintetiche, dannandoli
a impedimento di traspirazione
e quindi a morte lenta ma sicura;
per queste ed altre, tante altre morti
di medesimo stampo e uguale marchio,
io domando giustizia.
 

Per gli splendidi, a rischio
di fine prematura e violenta,
animali dotati di pelliccia,
di cui ingente numero ha provato
e prova le tagliole, le imboscate,
i metodi brutali, le angherie
escogitate dall’intelligente
per venirne in possesso e farne capo
di vestiario supremo, raffinato;
soggetti a morte quasi sempre atroce
perché non venga leso da ferite
o strappi il manto ambìto; animali
non solo catturati nel loro habitat,
ma fatti nascere e allevati a posta
in intensivi allevamenti, cioè a dire
in forme indegne di cattività,
io domando giustizia.
 

Per gli amici dell’uomo,
cani e gatti domestici, voluti
per capriccio dai figli o dal consorte,
o per moda, o per guardia, o attrazione,
forse per compagnia da chi è solo,
ma senza un vero vincolo d’affetto,
e che al primo contrasto, al primo incomodo,
o perché fatti grandi e turbolenti
più di quanto facesse prevedere
la loro forma di graziosi cuccioli,
o perché, infine, d’impaccio nel giorno
in cui l’aggruppamento familiare
s’avvia verso il luogo delle ferie,
vengono abbandonati: da quell’attimo
inizia per le povere bestiole
il calvario funesto del randagio:
smarrimento, percosse, fame e sete,
pericoli, stanchezza, inanizione,
finché, accalappiate, si ritrovano
in ricoveri inospiti, dai quali,
se nessuno perviene a prelevarle,
escono eliminate da una spiccia
iniezione letale. Tutto questo
avviene per numero incredibile
di vite disprezzate, per le quali
io domando giustizia.
 

E per i senza numero
animali che l’uomo ha eliminato
in infiniti differenti modi
oltre quelli elencati – pachidermi
abbettuti a decine di migliaia
al solo scopo di ottenere avorio
(i corpi, se non pasto d’avvoltoi
o iene, si consumano in putredine);
pesci rapiti alle acque; moltitudine
che il vasto repertorio di catture
condanna ad agonie e morti sadiche
stimate meno gravi perché mute;
rane private vive delle cosce
(le sole a costituire un piatto tipico)
e poi buttate nell’ammasso mutilo
a rendere la vita agonizzando:
elenco in cui rifiuto di procedere
perché risulterebbe troppo lungo
e graverebbe il cuore d’un macigno
sommamente pesante, insopportabile –
io domando giustizia.
 

Morte,
che hai nell’uomo il tuo più fido servo,
l’esecutore più ossequiente, il boia
più assiduo nell’attuare i tuoi verdetti,
l’adepto più esaltato e più tenace,
il braccio destro più zelante, Morte,
giustiziera non giusta, oscurantista,
inficiata da indegne propensioni
a sevizie, a torture, a sofferenze
inopportune al tuo mandato estremo,
più controproducenti che valevoli
a darci il senso del tuo scopo ultimo
tanto che noi ti detestiamo, Morte,
per quanti innumerabili interventi
su vite inconsapevoli e incolpevoli
ti sei servita dell’agire umano,
ti servi e servirai oggi e in futuro,
io domando giustizia,
io richiedo giustizia,
io pretendo giustizia.
    

7. Sopra un’immagine biblica *
 
Un amico poeta
avvia un suo testo
dichiarando di attendere
ogni mattino, sempre,
che gli compaia – fausta
portatrice d’annunzio
di libertà e riscatto –
la colomba dell’arca
con il ramo d’ulivo.
 
Quel poeta è oscuro
ma l’immagine biblica
tolta dall’epopea
del diluvio grandiosa
è un lampo di bellezza
degno d’un grande vate,
perla quindi esemplare
alla quale inchinarsi
senza riserva o remora.
 
Innestata nell’umile
quotidiano del vivere,
quell’immagine è segno
di volontà decisa
a non cedere mai,
a volere ogni giorno
affrontare il destino
duro, arduo ed avverso,
con tenacia mai vinta.
 
Tesa a significare
immersione totale
nel flusso della Storia,
fondata sul passato,
proiettata al futuro,
è simbolo che amplifica
il senso della vita:
ogni vita come arca
nel diluvio di pena
in cui tristi si naviga.
 
Segno dunque e bandiera
d’indomita speranza;
quella speranza che,
ultima dea, è prima
ad affiancare l’uomo
che si sveglia e ritrova
nella triste avvilenza
posta la sera innanzi
sopra i panni dismessi.
Speranza che incoraggia.

*Cfr. A. Rudi, Settenari (2002 – 2010), Mozzate (CO) 2011, pp. 75-76.

 

8. Fu per questo che Dio creò la donna *
 

Fu quando Dio s’accorse
che Adamo, preso da un amore vivo
per le bellezze del Creato,
baciava i fiori, le farfalle, i frutti,
e pur così baciando
l’impulso di baciare anziché scendere
gli si moltiplicava,
diveniva tormento.
Fu allora che comprese
come occorreva un simulacro altissimo
di Sé, beltà assoluta,
baciando il quale la creatura più alta
arrivasse a saziarsi.
Ma tale bacio all’uomo era interdetto:
nulla esisteva che potesse accoglierlo.
Fu per questo che Dio creò la donna,
la meraviglia che si aggiunse, ultima,
al disegno iniziale del Creato.
E risultò la più perfetta: in essa
compendiate apparivano le altezze
che meglio rimandavano al divino.
Ma quando Adamo s’accostò col bacio
alla nuova creatura, così grande
fu il desiderio di aderire ad essa,
d’esserne parte, fondersi
in quel crogiolo di bellezze estreme
che più forte sentì, insopportabile
il desiderio di non smetter baci.
Ciò che doveva spegnere, acquietare,
finì per scatenare a dismisura.
Il divino è così: non sazia mai,
anche quando è in immagini carnali.


* Cfr. A. Rudi, Pietrame, Youcanprint, Tricase (LE) 2013.

9. Bisanzio *
 

Di Bisanzio
noi non abbiamo bisogno.
Sì: dirà pure qualcosa,
o anche molto, Bisanzio,
nell’ufficialità della cultura.
Ma noi siamo altri, uomini diversi
nella gestione dei valori alti,
intellettivi o storici che siano,
ed anche mercantili, ed anche artistici.

Saranno pure state grandi
Bisanzio, come Atene, come Roma,
come Gerusalemme od Alessandria.
Ma noi non vogliamo essere grandi
come furono, colmi d’ambizioni,
i maggiorenti che vi soggiornarono,
vi si esibirono, vi dominarono.
Noi aspiriamo a grandezze diverse,
ad altri pregi, ad altre eccellenze,
ad altre maestrie, ad altre prestanze.

Non l’aquila soltanto vola alto.
Vola alto anche un semplice, esiguo,
rondone migratore,
e per di più capace di coprire
estensioni incredibili di miglia
quali l’aquila nemmeno si figura,
e in strati d’atmosfera superiori
quali l’aquila ignora. Lassù inoltre
non si danno litigi, antagonismi.
Lassù si è tutti solidali. Persi,
ma non turbati, nell’immensità
viva di luce, vuota di apparenze.
Lassù si è tesi al solo grande scopo
di favorire il corso della vita.

Senso non ha lassù parlare infine
di maestosità, supremazia,
di sguardo ardito, cipiglio, imponenza:
pregi tutti che l’uomo
attribuisce all’aquila. Lassù
queste prerogative impallidiscono,
lasciando spazio a doti meno eccelse,
doti di consistenza e concretezza
ma più consone al vivere, all’esistere.

Ecco: noi vogliamo essere rondoni,
creature d’aria, di luce, di cielo,
di tenacia e concordia.
Nulla dunque c’importa se, modesti,
rifiutiamo la vita organizzata
secondo i postulati del prestigio
(i cosiddetti sviluppo e progresso
come diffusamente praticati).
Non produrremo capitelli, fregi,
logge, manieri, are, biblioteche,
accademie e basiliche.
Ai colonnati in pietra
vogliamo sostituirne eretti in tronchi,
alle chiese e alle regge
pomari e broli, selve dove volta
fronde siano e cielo, tersa, e dove
nessun simbolo sculto o dipinto
richiami preminenza, egemonia.

Vogliamo l’armonia globale, quella
– ugualitaria, equabile, felice –
che mancò alle urbi sopraddette.
Certo è, così, che spiriti altezzosi
rideranno di noi, duri accusandoci
di essere ignorabili utopisti.
Nulla di male: meglio
utopisti derisi da saccenti
che sudditi incoscienti
per guasto etico (e ammorbati
di folle cecità) nell’applicare
una scala valori divergente
da quella delle origini,
se le origini furono felici.

Meglio l’accondiscendere a Natura,
rispettandone i canoni,
accogliendone i limiti,
assecondando il meglio della sua
brillante, a volte irruenta, ma in complesso
– se intromissioni non sorgono estranee
come quelle (che sfasciano) dell’uomo
cosiddetto evoluto
– sacra ed armonica, vitalità.

* Cfr. A. Rudi, Residenza decastila, B&B Edizioni, Mozzate (CO) 2014.


 

10. Via Crucis – Stazioni 1-3 *

Condanna

Cosa ti ha trattenuto, onnipotente,
dal compiere il prodigio non conosco,
sul punto in cui Pilato si assolveva:
transustanziare l’acqua in sangue,
renderla segno sensibile
del crimine occulto d’un vile.

Ma, sospesi nell’ora delle tenebre
i tuoi poteri, parve gioco semplice,
a chi ti giudicava, abbandonarti
– innocente non conta – in pegno d’ordine.

Tu intanto udivi reclamarti ostili
le braccia affilate dall’invidia
dei sapienti confusi tra la plebe.
E, agnello mansueto, tacevi.

La croce

Quando i raggi del sole di quel giorno
irruppero nel foro tumultuoso,
brillò sinistro il sangue raggrumato
sul tuo volto deriso d’ecce homo.

Ma più brillarono gli occhi, nascosti
in quell’obbrobrio di maschera regale,
e fu quando vedesti che portavano,
da caricarti, il legno degli schiavi.
Era che del tuo regno d’altro mondo
il vessillo prescelto farsi avanti
in quel legno scorgevi, e che per sempre
tu e la croce avreste avuto un’unica,
ammirevole storia di conquiste.

Tu e la croce: re, vessillo e premio
d’un regno a questo mondo incomprensibile.

Prima caduta

Nel mentre discendevi la scalea
e vacillavi sotto il peso infame,
la muta dei fanatici più accesi
ti circondò – dal popolo sospinta –
gridandoti improperi innominabili.

Ne sorse un tafferuglio in cui tu, unico
indifeso, subisti nuove scosse,
nuovi colpi intronanti nello spasimo
delle cave tue vene – e poi cadesti.

Rifatto ordine, tu solo giacevi
incapace d’alzarti: un torvo sgherro
afferrò la tua carne per le piaghe
e brutalmente ti rimise in piedi.


* Cfr. G. Antognazza - A. Rudi, Via Crucis, Presentazione di Don B. Legramandi, Locate Varesino (CO) 2001.

 

 

 

11. Questioni divine *

La passione di Cristo

Necessaria? Se sì,
perché nell’andamento
mostruoso che sappiamo?
Se no, perché fu imposta?
Domande che poniamo
senza avere risposta.
(Quella che danno: amore,
appare insufficiente
a spiegarne l’orrore).

Congettura

Volendo concentrare in un pensiero
quanto avviene di male sul pianeta,
e ragionando con criteri umani,
sembra di dover dire – e senza dubbio
non lontano dal vero, anzi certissimo –
che Satana sa molto bene come
dare filo da torcere a Colui
che lo ha catapultato nell’abisso.

S’un muro di Mauthausen

Dicono che s’un muro di Mauthausen
fu trovata la scritta “Se Dio esiste
deve una spiegazione”.
L’ignoto autore di tanto pensiero
ha potuto vergare quella scritta
perché dimenticatosi che Dio
non è tenuto a dare spiegazioni.
Se lo fosse, difatti,

non sarebbe più Dio.

* Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.

 

 

 

12. Amarastro *

L’immensa millenaria sofferenza
presente sulla faccia della Terra,
anche a volerle dare un contenuto
di orientamento verso perfezione,
come dicono i saggi della Storia
e i sapienti, a partire dai più antichi,
Budda, Confucio, Epicuro, Zoroastro,
lascia in bocca un sapore d’amarastro.

 

*Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.

 

13. Dolce-amaro *

Allusività erotica

Solo starti vicino è una delizia:
la femminilità che tu promani
solleva a leggerezza inesprimibile.
Se poi aggiungi sguardi languorosi
e parole che invitano a conoscerti
nel modo che – allusivo – intende il Libro,
allora il paradiso apre la porta
che venne chiusa da spada di fuoco
ad una spada fulgida di gaudio.

Sul dorso una croce

Pone il destino sul dorso una croce
ad ognuno che nasce.
Ma poi alcuni riescono a disfarsene
ed accollarla ad altri.
Resta comunque amplissima la schiera
di chi la sua trascina
per l’esistenza intera.

 

*Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.

 

14. Riflessione sulla foglia del fico *

 

Se il primo peccato fu venereo,
come taluni credono,
è blasfemo pensare
che quando vollero coprirsi, Adamo
ed Eva, le pudenda, i gioielli
di carne da cui tanto di dolcezza
carnale avevano stillato, scelsero,
fra numerose differenti foglie
che il giardino terrestre loro offriva,
quella del fico, l’albero il cui frutto
aveva maggiormente soddisfatto
il loro gusto, il loro palato?
Se così è stato, vollero
forse dire: copriamo una dolcezza
che ci fa arrossire,
ma per non smemorarcene
la nascondiamo con foglie dell’albero

che dà il frutto più dolce?

 

*Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.

 

 

15. Via Crucis - Stazione 4-6

 

La Madre

La vedesti, tua madre, presso un arco
strettissimo, dove, come a un’ansa
di fiume la corrente si fa tenue,
la turba diradata non urgeva.
In quell’ultimo istante solitario
del tuo corso mortale lei vedesti
che nel primo t’accolse, già presaga
del suo tragico epilogo.
Nel volto immacolato e nel celeste
manto che l’avvolgeva essa ti parve
spirito del tuo spirito – e tu a lei,
nel volto e nella tunica scarlatti,
sangue del suo sangue – che pativa.
E a rendervi più saldi nel dolore
la spada dei medesimi pensieri
vi trafiggeva. Finch’ella ebbe forza
di staccarsi da te, e silenziosa
seguirti nel tumulto che ingrossava.

Il Cireneo

Col proposito di prendere un uomo,
il primo che venisse tra le mani,
e caricarlo del peso della trave,
si scagliarono i militi imprecando
verso la folla. Al fiuto del pericolo
tutti si ritirarono tranne uno:
Simone di Cirene, agricoltore,
alto e squadrato, giusto l’uomo adatto.
Costui si era trovato nel subbuglio
di ritorno dai campi: mero caso?
Ebbe così la folla rifluendo
uno in più da deridere: uno tardo
a fuggire dai guai: Cristo soltanto
sapeva che quell’uomo si era esposto
per un inizio di compatimento
del suo misero stato. E come premio,
dopo averlo congiunto al suo dolore,
lieve gli rese e alieno il vilipendio.

La Veronica

Al tuo sangue purissimo di Dio,
come il nostro poteva, reo, congiungersi?

Sfiorando la Veronica amorevole
con un candido lino la tua fronte,
si punse alla corona delle spine.
Fu così che una goccia del suo sangue
si disciolse nel tuo, si confuse
nell’immagine del santo sudario.

Quella goccia era nostra, sangue nostro

di peccatori aggiunto al tuo prezioso.

 

 

16. Via Crucis - Stazione 7-8

 

Seconda caduta

Come in bilico a un orlo di voragine,
in un’inerzia che ad alcuno – esperto
d’agonie di condannati – pare estrema,
si ferma il redentore. Un’onda greve
di vertigine al cranio gli si affolta,
lo sguardo gli si offusca, le tempie
gli battono furiose,
e nel perdere i sensi e nel cadere
la febbre allucinante gli fa credere
di scendere in un buio senza fine.
Nulla potendo gli angeli che un tempo,
vincitore, lo avevano servito,
tocca a uomini, ora, diabolici
dalla polvere vinto sollevarlo;
non senza ira, spinte, contumelie,
offese che gli rendono più amaro
il suo triste riaversi.

Le donne

Quello che poi avvenne fu incredibile:
la vittima sommersa d’abominio,
orrendamente in volto sfigurata,
ridotta a ombra quasi, ebbe forza
d’imporsi a grida ostili e profetare.
Donne che a lui devote s’attristavano
seguendone il martirio, ne sentirono
lo sguardo acuto coglierle,
e fioca ma pur lucida la voce
leggere nel futuro eventi inquieti:
“Non piangete su me, su voi piangete,
figlie d’Jerusalem,
perché, se tanto soffre il legno verde,
che ne sarà del secco?”
Così diceva, ed esse fra le mani,
tornando a singhiozzare, si nascosero.
Parve un secolo il tempo che immobile
– a tanto ardire – e nel timore incredulo
il popolo rimase: occorse un urlo,
un comando gridato come belva,
perché si riscuotesse – e sul cordoglio
riprese sopravvento la ferocia.

 


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