Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Rivisitazioni,
traduzioni, manipolazioni

Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Antonio
Spagnuolo
Scheda
biobibliografica
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Piramo
e Tisbe
Ovidio
– Metamorfosi – IV, 55-166
Pyramus
et Thisbe, iuvenum pulcherrimus alter,
altera,
quas oriens habuit, prelata puellis,
contiguas
tenuere domos, ubi dicitur altam
coctilibus
muris cinxisse Semiramis urbem.
Notitiam
primosque gradus vicinia fecit ;
tempore
crevit amor; taedae quoque iure coissent,
sed vetuere
patres. Quod non potuere vetare,
ex aequo
captis ardebant mentibus ambo.
Conscius
omnis abest; nutu signisque loquuntur;
quoque
magis tegitur, tectus magis aestuat ignis.
Fissus
erat tenui rima, quam duxerat olim,
cum fieret,
paies domui communis utrique.
Id vitium
nulli per secula longa notatum
-quid non
sentit amor?- primi vidistis, amantes,
et vocis
fecistis iter, tutaeque per illud
murmure
blanditiae minimo transire solebant.
Saepe,
ubi consisterant, hinc Thisbe, Pyramus, illinc,
inque vices
fuerat captatus anhelitus oris,
“invide”
dicebant “paries, quid amantibus obstas?
...
nec sumus
ingrati: tibi nos debere fatemur,
quod datus
est verbis ad amicas transitus auris”.
Talia diversa
nequiquam sede locuti
sub noctem
dixere vale partique dedere
oscula
quisque suae non pervenientia contra.
Postera
nocturnuos aurora removerat ignes:
solque
pruinosas radiis siccaverat herbas:
ad solitum
coire locum. Tum murmure parvo
multa prius
questi, statuunt, ut nocte silenti
fallere
custodes foribusque excedere temptent,
cumque
domo exierint, urbis quoque tecta relinquant;
neve sit
errandum lato spatiantibus arvo,
conveniant
ad busta Nini, lataentque sub umbra
arboris.
Arbor ibi, niveis uberrima pomis
ardua morus
erat, gelido contermina fonti.
Pacta
placent,
et lux tarde discedere visa
praecipitatur
aquis, et aquis nox exit ab isdem.
Callida
per tenebras versato cardine Thisbe
egreditur
fallitque suos, adopertaque vultum
pervenit
ad tumulum dictaque sub arbore sedit.
Audacem
faciebat amor. Venit ecce recenti
caede leana
boum spumantes oblita rictus,
depositura
sitim vicii fontis in unda.
Quam procul
ad lunae radios Babylonia Thisbe
vidit,
et obscurum trepido pede fugit in antrum,
dumque
fugit, tergo velamina lapsa reliquit.
Ut lea
saeva sitim multa compescuit unda,
dum redit
in silvas, inventos forte sine ipsa
ore cruentato
tenues laniavit amictus.
Serius
egressus vestigia vidit in alto
pulvere
certa ferae totoque expalluit ore
Pyramus.
Ut vero vestem quoque sanguine tinctam
repperit
, “Una duos” inquit “nox perdet amantes;
e quibus
illa fuit longa dignissima vita,
nostra
nocens anima est: ego te, miseranda, peremi,
in loca
plena metus iussi nocte venires,
nec prior
nunc veni. Nostrum divellite corpus,
et scelerata
fero consumite viscera morsu,
o quicumque
sub hac habitatis rupe, leones!
Sed timidi
est optare necem”. – Velamina Thisbes
tollit
et ad pactae secum fert arboris umbram.
Utque dedit
notae lacrimas, dedit oscula vesti,
“Accipe
nunc” inquit “nostri quoque sanguinis haustus!”
Quoque
erat accinctus demisit in ilia ferrum,
nec mora,
ferventi moriens e vulnere traxit.
Ut iacuit
resupinus humo, cruor emicat alte;
non aliter,
quam cum vitiato fistula plumbo
scinditur,
et tenui stridente foramina longas
eiaculatur
aquas atque ictibus aera rumpit.
Arborei
fetus adspergine caedis in atram
vertuntur
faciem, madefactaque sanguine radix
puniceo
tingit pendentia mora colore.
Ecce metu
nondum posito, ne fallat amantem,
illa redit,
iuvenemque oculis animoque requirit,
quantaque
vitarit narrare pericula gestit.
Utque locum
est et visa cognoscit in arbore formam,
sic facit
incerta pomi color: haeret, an haec sit.
Dum dubitat,
tremebunda videt pulsare cruentum
membra
solum, retroque pedem tulit, oraque buxo
pallidiora
gerens exhorruit aequoris instar,
quod tremit,
exigua cum summum stringitur aura.
Sed postquam
remorata suos cognovit amores,
percutit
indignos claro plangore lacertos,
et laniata
comas amplexaque corpus amatum
vulnera
supplevit lacrimis fluentumque cruori
miscuit,
et gelidis in vultibus oscula figens
“Pyrame”
clamavit, “qui te mihi casus ademit?
Pyrame,
responde: tua te carissima Thisbe
nominat!
Exaudi, vultusque attolle iacentes!”
ad nome
Thisbe oculos iami morte gravatos
Pyramus
erexit, visaque recondidit illa.
Quae postquam
vestemque suam cognovit, et ense
vidit ebur
vacuum: “tua te manus” inquit “amorque
perdidit,
infelix. Est et mihi fortis in unum
hoc manus,
est et amor: dabit hic in vulnera vires
persequar
extinctum, letique miserrima dicar
causa
comesque
tui; quique a me morte revelli
heu sola
poteras, poteris nec morte revelli.
Hoc tamen
amborum verbis estote rogati,
o multum
miseri, meus illiusque parentes,
ut, quos
certus amor, quos hora novissima iunxit,
componi
tumulo non invideatis eodem.
At tu,
quae ramis arbor miserabile corpus
nunc tegis
unius, mox es tectura duorum,
signa tene
caedis pullosque et luctibus aptos
semper
habe fetus, gemini monimenta cruoris”.
Dixit,
et aptato pectus mucrone sub imum
incubit
ferro, quod adhuc a caede tepebat.
Vota tamen
tetigere deos, tetigere parente:
nam color
in pomo est, ubi permaturuit, ater;
quodque
rogis superest, una requiescit in urna.
Piramo
e Tisbe, giovane affascinante lui,
tra
le più belle fanciulle dell’oriente lei,
abitavano
in due case contigue, lì dove si racconta
essere
la cinta delle mura di mattoni della città di Babilonia.
La vicinanza
fu per loro docile conoscenza,
ed il
tempo alimentò quell’amore che li avrebbe
portati
a sicure nozze. Ma i familiari non acconsentivano.
Ciò
che non poterono vietare fu l’ardente passione
che
annebbiava le giovani menti.
Nessuno
conosceva i loro sentimenti, infatti
comunicavano
con cenni e segni, sì che più occultavano
i loro
sentimenti maggiormente esplodeva il fuoco.
La parete
comune alle due abitazioni era incrinata
da una
sottile fessura, di sicuro da antica data.
Questo
difetto per molti secoli non fu notato da alcuno.
“Cosa
non riesce a scoprire l’amore?” Foste voi
- giovani
amanti – a vederlo per primi,
e della
voce ne faceste il cammino segreto
mentre
le più dolci parole riuscivano a passare con un bisbiglio.
Spesso,
da un lato Tisbe e dall’altro Piramo,
ambedue
riuscivano a percepire il respiro dell’ altro
sussurrando:
“ O invidiosa parete, perché sei d’ostacolo
a noi
amanti? Ma non siamo ingrati: a te dobbiamo se possiamo
comunicare,
giacchè sei in effetti il viatico delle nostre parole”.
Con
queste ed altre parole verso sera si salutarono
inviando
l’un l’atro sguardi languidi che purtroppo
non
giungevano oltre il muro.
L’aurora
del giorno seguente piano piano nascondeva le stelle
ed i
raggi del sole asciugavano l’umida erba:
come
al solito convennero al loro appuntamento.
Con
sussuri si scambiarono dolci parole, quindi
decisero,
profittando del silenzio della notte, di eludere
il controllo
e di uscir fuori dalle mura.
Usciti
fuori di casa, lasciar l’abitato
e senza
correr troppo per l’aperta campagna
decisero
appuntamento al sepolcro del Re Nino,
nascondendosi
al riparo di un albero.
In quel
luogo l’albero di moro era stracolmo
di frutti
bianchi e vicinissimo ad una fresca fonte.
L’accordo
piacque in attesa che la luce del sole
si immergesse
nel mare e dal mare venisse fuori la notte.
Cautamente
Tisbe, schiusa la porta, uscì fuori nel buio
eludendo
la sorveglianza dei parenti. Col viso coperto
giunse
al tumulo e come stabilito sedette sotto l’albero.
L’amore
la rendeva audace.
Ecco
improvvisamente sopraggiungere una leonessa
con
la bava alle fauci ancora imbrattata per aver ucciso
da poco
un bue, desiderosa di placare la sua sete
nell’acqua
della fonte.
Appena
Tisbe la vide comparire fra i raggi della luna
con
passo tremante si nascose in una grotta oscura,
e nel
fuggire abbandonò dietro di se il velo cadutole dal capo.
Quando
la leonessa ebbe ben bene soddisfatto la sua sete
ritornò
nel bosco ed imbrattò con la bocca sporca ancora
di sangue
il velo abbandonato.
Più
tardi, uscito di casa, Piramo vide impresse
nell’alto
strato di polvere le orme della bestia
ed impallidì
nel volto.Non appena si imbattè nel velo
intriso
di sangue urlò: “Una sola notte perse due amanti!
Dei
quali lei fanciulla da più che degna vita, mentre
io sono
un misero colpevole. Io stesso, misera, ti chiesi
di venire
in questo luogo che di notte è pieno di pericoli,
né
riuscii a venire per primo. Ora sbranate il mio corpo,
e le
mie scellerate visceri dilaniate a morsi, o leoni,
o chiunque
viva tra queste rupi. Ma da vigliacchi è chiedere la morte!”
Prese
il velo di Tisbe e come stabilito si avviò all’ombra dell’albero.
Pianse
a lungo, guardando esterefatto la veste:
“ Prendi
ora anche il mio sangue, bevilo!” urlò.
Preso
il pugnale, senza indugio lo infilzò nel basso ventre,
quindi,
desideroso di morire, lo estrasse dalla ferita.
Come
si abbattè sul terreno il sangue schizzò alto.
Non
un alito, come s’aprì la ferita scarnita dal piombo
fece
zampillare lunghi getti d’acqua e con questi zampilli
riuscì
a fendere l’aria.
I frutti,
macchiati dal sangue, cambiarono all’istante faccia
in un
colore scuro, i gelsi divennero tinti di rosso.
Non
appena riuscì ad allontanare il timore,
per
non venir meno alla promessa ella tornò
cercando
con ansia il giovane amante,
per
raccontargli quanta paura e quali rischi avesse sfuggito.
Riconosce
il luogo e l’albero, ma rimane perplessa
al colore
dei frutti.
Tremante
ed impaurita si accorge del corpo
ancora
palpitante ed insanguinato sul terreno.
Arretra
di qualche passo.
Con
il viso smarrito cominciò dinuovo a tremare
senza
posa, mentre la pelle viene sfiorata
da lieve
brezza.
Riconosce
il suo amante e si percuote violentemente
le membra
con colpi rumorosi.
Strappandosi
i capelli abbracciò il corpo dell’amato
riempì
la ferita di lacrime e mescolò il pianto
con
il sangue.
Volgendo
gli occhi al gelido viso : “Piramo – urlò –
chi
o cosa mai ti ha strappato a me? Piramo, rispondi
è
la tua cara Tisbe che ti chiama. Ascoltami,
voltati,
alzati…”
Al nome
di Tisbe Piramo tentò di volgere gli occhi,
ormai
pesanti per la morte vicina, e li fissò nel suo volto.
Riconobbre
il suo velo e la guaina priva del pugnale.
“Oh
infelice – disse – ti uccisero il mio amore
e la
tua stessa mano. Sia forte almeno una volta ancora
la mano,
ancora per amore: mi dia la forza di ferire,
di seguire
chi sta per morire, e si possa dire
che
io sono stata la causa e la compagna della tua
funesta
morte. E tu che soltanto con la morte
potevi
essere separato da me, neppure dalla morte
lo sarai.
Così almeno i desideri di tutti e due saranno
esauriti.
Oh, miseri i nostri genitori, per il nostro grande
amore
che all’ultima ora ci unì, preparate un solo tumulo,
e non
invidateci.
E tu
, albero miserabile che nascondi con i tuoi rami
il corpo
fai da protezione ad entrambi. I tuoi frutti
rimangano
come segno di lutto di questo violento colore
di sangue”
Disse
e rivolta la punta del pugnale verso il petto
spinse
nelle visceri il ferro, ancor caldo …
Questi
accadimenti commossero gli dei,
commossero
i parenti. Ancor oggi quando
i frutti
del gelso sono ben maturi si tingono di
rosso
scuro, ed una sola urna raccoglie le ceneri
di entrambi.
Crepitio
Storia che improvvisamente si chiude,
illusione delle necessità di specchi
e crepitio sommesso di profumi.
In un mondo senza permanenza
ho il mio conio in consuetudine
per aver cercato Dio anche nel brivido,
mentre l’ultima vestale ha profanato
il tempio promettendo occasioni,
rifuggendo il respiro.
Il volo di un gabbiano scandisce
riaffiorare linguaggi già interrotti
mentre rallento ogni passo
temendo di cadere.
Ecco che il demone ha deviato il dubbio
nel vuoto che hai dovuto creare
Baccello
Vorrei credere adesso! Dove si ritrovano
turchine officine di abbandono,
lo scoppiettare in gola di un tormento,
i suoi pensieri selvaggi nell’affanno,
l’ansiosa bocca riportata al petto,
sopra uno scoglio o tra le rive accese
morbida forma di coppa spumeggiante.
Finalmente immensa piramide
voglio sciogliermi e diventare nettare
in deserto, strano grembo,
perché le pietre si stacchino
per seppellire la macchina di ferro
che tempesta i miei giorni.
Ruota traverso i capelli fremente
il battito furtivo come trottola
sino a farmi scoppiare all’improvviso
quale risposta delle allucinazioni
serpentine come fiore strozzato.
Il vigoroso sogno del dubbio
che di nascosto cerca di insidiare
il bocciolo serrato tra le labbra
vibra come sciame di vespe.
Druido arrotolato nei baccelli
inseguo una rossa luna ormai fuggente
lanciato come spruzzo nelle riposte passioni.
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